BERLINALE 64 – Nymphomaniac Volume I, di Lars Von Trier (Fuori Concorso)


Nymphomaniac non è che un omaggio indulgente che Von Trier fa al proprio Cinema immobile. Un film, che attraverso l’utilizzo pleonastico di immagini esplicite vorrebbe sfruttare, con un conformismo disarmante, i mezzi del Porno, perdendo miseramente il confronto con esso e rivelandosi la fotografia di un autore schiacciato sotto l'immagine statuaria che si è costruito addosso

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Lars Von Trier sembra quasi godere di essere diventato una persona non grata. L’attesa messianica e la furba campagna promozionale che hanno accompagnato la nascita di Nymphomaniac, il suo primo film post-cacciata dal tempio di Cannes, si sono, infatti, giocate tutte sulla celebrazione del suo mito trasgressivo, sull’esaltazione del suo recente status di (presunto) autore maledetto. Sin dai primi rumors che vedevano Von Trier in procinto di cimentarsi in un progetto-monstre puramente pornografico, molti hanno cominciato a fantasticare su quali nuove provocazioni il regista danese avrebbe regalato al suo pubblico, e su quali limiti cinematografici avrebbe superato. Nymphomaniac, invece, non è che un omaggio indulgente che Von Trier fa al proprio Cinema. La lunghissima confessione che la malmessa Joe (Charlotte Gainsbourg) fa al buon samaritano (Stellan Skarsgard) che l’ha raccolta in un vicolo, segue lentamente la dis-educazione sessuale di una giovane donna destinata (per propria ammissione) a diventare una ninfomane. Il film, come in un moderno Decameron, alterna una statica cornice narrativa dove la donna e il suo ospite discutono sul significato dei racconti, agli episodi passati di un’adolescenza estrema.

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Se la parte confessionale, con un uso generoso e divertito di citazioni dotte, si basa completamente sulle interpretazioni dei due attori ed è sorprendentemente coinvolgente nella sua asciutta forza, sono i cinque capitoli della vita di Joe a mostrare i detriti dell’esplosione dell’ego di Von Trier. Attraverso l’utilizzo pleonastico di immagini esplicite (penetrazioni, sesso orale, masturbazioni), il regista danese vorrebbe sfruttare, con un conformismo disarmante, i mezzi del Cinema Porno, perdendo miseramente il confronto con esso. Incapace di ricreare non solo il desiderio, ma soprattutto la forza visiva della pornografia, Von Trier si limita a riprendere solo tanti movimenti meccanici, spacciando il tutto per una stravagante disamina sul rapporto tra Amore e Sesso e sulle influenze che questi elementi hanno sull’esistenza umana. Questa copertura intellettuale, di per sé, avrebbe anche un suo fascino. Il problema è che, purtroppo, a Von Trier non interessa parlare di nient’altro che non sia se stesso. Ed ecco, dunque, spiegata la frustrazione con cui tratta il sesso (privo di qualsiasi erotismo), oppure il disordinato puzzle citazionista costruito come mero sfoggio di cultura personale. Queste sono solo due delle caratteristiche chiavi di un cinema ormai rimasto piantato sui propri allori di gloria. Poco possono gli attori rimasti ostaggio dello snervante gioco di Lars, costretti a spogliarsi dei vestiti e dell’eros, diventati ormai automi. Uniche due eccezioni sono Uma Thurman (la signora H.) e un ritrovato Christian Slater (l’adorato padre di Joe), gli unici attori che, spezzando le catene dei propri ruoli, regalano qualcosa di personale. Riconosciamo che è limitativo dare un giudizio definitivo su un’opera incompleta (molto probabilmente, nel secondo volume, ci sarà tutto il tempo per vedere il regista torturare la Gainsbourg), ma anche cosi un messaggio sul Cinema di Von Trier arriva forte e chiaro. Persosi tra i soliti vezzi della sua cinepresa e furbe idee di regia (la colonna sonora, il montaggio, le sovraimpressioni) Lars Von Trier ormai è immobile, schiacciato (forse consapevolmente) dall’immagine statuaria che si è costruito addosso.

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