BERLINALE 64 – Tui na (Blind Massage), di Lou Ye (Concorso)

blind massage

L'intento è di individuare il punto di vista dei ciechi, per affermare la loro capacità di vedere in maniera più profonda. Operazione dichiaratamente fallimentare, che si perde nel programma, tra le righe di una scrittura che sembra voler "riparare". Eppure, quando Lou Ye si lascia andare, trova momenti di grande intensità

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blind massageOrmai il cinema di Lou Ye sembra sempre più scontare il peso della missione di cui si è fatto carico. L'esplorazione dei mille frammenti di una situazione sentimentale complessa, indefinita, frustrata dai risvolti ingestibili del caos contemporaneo. L'amore come residuo tossico della trasformazione di un'intera società. E quindi i rapporti, etero o omosessuali, non possono che prendere derive di infelicità, violenza, incomprensione, alienazione. I mille potenziali lampi mélo delle sue storie e della sua sensibilità più profonda si ritrovano imprigionati e annichiliti nelle gabbie concettuali di una scelta programmatica ben definita. Non sfugge dalla strada intrapresa neanche Blind Massage, anche se per la particolarità del "punto di vista" e le ipotesi di partenza, contiene in sé le promesse di una liberazione. Perché questa esplorazione confusa, "alla cieca", nel mondo e nei sentimenti dei non vedenti, sembra davvero la premessa per un ribaltamento dei sensi.

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Lou Ye, partendo da un romanzo di Bei Feiyu, racconta le vicende di un gruppo di massaggiatori ciechi, per coglierne le solitudini, i sussulti del cuore, i dubbi sull'amore, sull'idea di bellezza, i rifiuti, le pulsioni sessuali, le frustrazioni. Al centro c'è la storia di Ma, un ragazzo che ha perso la vista da bambino in un incidente stradale. Però, a conti fatti, si tratta di un film corale, tra attori e non vedenti veri, tutto giocato sull'intensità della performance e la spontaneità del reale, tra la tecnica e l'istinto. L'intento, evidente, è quello di individuare il punto di vista dei ciechi, per affermare la loro capacità di vedere in maniera più profonda, di leggere nei cuori aldilà delle incertezze. Operazione dichiaratamente fallimentare, che Lou Ye tenta di portare avanti utilizzando tutta una serie di espedienti: i titoli di testa "detti" dalla voce fuoricampo di una narratrice, che ci accompagnerà per l'intero film, l'amplificazione dei suoni, una tendenza all'illeggibilità dell'immagine, con il ricorso ripetuto alle sfocature e alle distorsioni delle figure e degli spazi. Ovviamente l'obiettivo è mancato, perché, prima ancora che nella prospettiva orba, lo sguardo si perde nel programma, tra le righe di una scrittura che sembra voler "riparare". Fortunatamente, Lou Ye non è certo un asceta che pratica l'autocontrollo, manca di rigore. E proprio quando si lascia andare alle trovate più improbabili, formali e narrative, trova punte di intensità lacerante. Come nel momento in cui Ma riscopre le forme del mondo, il senso della bellezza e dell'amore.

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