CANNES 67 – Jauja, di Lisandro Alonso (Un Certain Regard)

Lisandro Alonso ri-azzera il suo cinema e ri-comincia dal deserto di Jauja. Il giovane cineasta argentino immerge lo spettatore in un abissale landscape di pure percezioni sensoriali, concepisce spazi e tempi alternativi nella stessa immagine dialettica, tenta nuove ipotesi di racconto e configurazione conservando gelosamente la propria memoria. Un’ambizione enorme e mai nascosta

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Lisandro Alonso ri-azzera il suo cinema e ri-comincia da Jauja. Terra dell’abbondanza e della felicità nei miti Inca, deserto roccioso fuori dallo spazio e dal tempo, concepito prima di ogni racconto o archetipo codificato, carico di una abissale potenzialità tutta semantica. Ricomincia da qui il giovane cineasta argentino, dopo sei anni dall’ultimo film (Liverpool) e con il sostanziale cambiamento, da lui stesso annunciato, che viene configurato sin dalla primissima inquadratura: un 4:3 primigenio, una profondità di campo che sfida l’occhio umano (figlia di un digitale ormai compreso in toto), un montaggio trasmigrato direttamente nell’inquadratura sempre satura e autosufficiente. Insomma una furiosa ricerca di verginità per il cinema che apre una (nuova) finestra bazinana sul mondo e ridiscute la dialettica del campo/fuoricampo. Un’ambizione enorme e mai nascosta.

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Viggo Mortensen (primo attore professionista e riconoscibile scelto da Alonso) è un misterioso capitano danese che si trova in Argentina, in un deserto beckettiano nel cuore della Patagonia, a capo di una sparuta pattuglia e alla ricerca di un generale scomparso. Si confronterà con i “fantasmi” di una tribù indigena insieme alla giovane figlia, che scomparendo misteriosamente crea di nuovo movimento nella stasi, come un sasso gettato in uno stagno. Alonso immerge lo spettatore in un landscape di pure percezioni sensoriali, riuscendo a concepire spazi e tempi alternativi nella stessa immagine. Un reale 3D che non ha il minimo bisogno di occhialetti, sfruttando sino in fondo la tecnica ma asservendola a un’etica di sguardo veramente incrollabile.

Il deserto, nel Mito e nel Cinema, è da sempre il luogo della risoggettivazione. E allora proprio il corpo “iconico” di una star assurge a clamorosa riflessione sul dispositivo: Viggo Mortensen è il portatore sano di miti e leggende hollywoodiane (Aragorn…) che vaga spaesato e senza meta in un’inquadratura che moltiplica costantemente i sui punti di fuoco negandogli ogni appiglio. Un corpo che si trasforma presto in ombra (stagliato in silhouette nel cielo stellato) o riflesso (in uno specchio d’acqua cristallina), alla disperata ricerca di una nuova soggettività che lo giustifichi: la misteriosa anziana signora che incontra nel cuore della terra gli chiede “sei un uomo?”…la risposta è sin troppo rivelatoria, ”credo di si”. Ecco: Jauja formula nuove ipotesi per il cinema contemporaneo. Una coalescenza di tempi e luoghi nella stessa immagine, totalmente incomprensibile se filtrata dai classici parametri cognitivi, che conserva preziose tracce di Storia nelle sue infinite pieghe. Il cielo fordiano (Mortensen a cavallo, stagliato sul cielo in profondità, veramente il western classico che balena in un frame), il deserto roccioso (“andiamo nel deserto per trovare cose tangibili, materiali” si dice all’inizio), gli echi della metafisica letteraria di Borges, la pittura dei romantici, ecc. Sono tutte scintille di passato che ritornano: sopravvivenze fulminee, condensate in un'immagine dialettica che tenta nuove vie ma conserva gelosamente la propria memoria. Insomma: questo splendido film ci (di)mostra, ancora una volta, che il cinema è tutt’altro che morto…

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