VENEZIA 71 – Con gli occhi chiusi (6): Fuga dello sguardo

Hill of Freedom Hong Sangsoo

Sempre più abbiamo bisogno di “un’educazione visiva”, una capacità di imparare a selezionare – moralmente e culturalmente – cosa vedere tra le infinite immagini del mondo. Quindi “imparare a non vedere” è uno degli esercizi decisivi dei nostri tempi. E possiamo abbandonare un film “disumano” e invece abbandonarsi nella visione di un film dove l’umanità si manifesta in flagranza.

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Hill of Freedom Hong SangsooSi narra che ai cittadini tedeschi, alla fine della II Guerra Mondiale, veniva “offerto”, ossia obbligato, di fare una sorta di tour nei campi di concentramento, per vedere con i proprio occhi che cosa il loro paese e i loro connazionali fossero stati capaci di fare, e loro di “non vedere” (o far finta di). Come un “obbligo della visione”, come monito oculistico/morale, perché non si potesse più dire “non sapevo”, oppure, come facevano i generali condannati dal Tribunale di Norimberga, “obbedivo agli ordini”.  Non ci si può più nascondere dietro i comandi, o dietro la propria “ignoranza”. Vedere diventa un obbligo morale. 

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Come ricordare.

 

Questo accadeva ormai 70 anni fa, una vita. Oggi, da quel tempo di “cecità”, tutto sembra essere cambiato. Oggi la visione è dappertutto. Siamo circondati da immagini, dovunque. E vedere non sembra più un “obbligo morale”, ma quasi un “certificato di appartenenza” per poter convivere nella comunità.  Oggi vediamo TUTTO. Dalle impiccagioni dei dittatori, alle violenze efferate, dalle nascite dei bambini, alle agonie dei malati. Entriamo oltre il buco della serratura dentro le vite private delle persone, persino dentro le camere da letto delle star del cinema. Persino la guerra è diventata “una visione”, dal Vietnam fino alla Guerra del Golfo, per poi diventare un esperienza quotidiana nel web. La guerra e le torture, gli omicidi e le esecuzioni.

Proprio l’esecuzione sommaria, con tanto di decapitazione, del fotografo americano James Foley, condivisa immediatamente da youtube da migliaia di persone, aveva scatenato la “censura” di Twitter e Facebook che, improvvisamente, da spazi aperti per la libera espressione delle persone, sono diventati dei contenitori editoriali, dove qualcuno decide cosa si può pubblicare o meno. L’orrore delle immagini cambia il registro delle libertà, e forse dall’11 settembre il senso di questi orrori risiede proprio nella contromossa culturale della censura, delle mancanze di libertà.

Quando qualcuno decide cosa si deve vedere non c’è più libertà, non c’è più democrazia.

 

Ma questo non vuol dire che dobbiamo accettare supinamente di “vedere tutto”. No, al contrario. Credo che sempre più abbiamo bisogno di “un’educazione visiva”, una capacità di imparare a selezionare – moralmente e culturalmente – cosa vedere tra le infinite immagini del mondo. Quindi “imparare a non vedere” (la decapitazione, la foto hard rubata dal cloud, il film “disumano” che un Festival ti propina, ecc…) è uno degli esercizi decisivi dei nostri tempi. Una scelta continua di non accettare che l’orrore della visione si paventi obbligatoriamente davanti ai nostri occhi. Perché oggi nella moltiplicazione del visibile possibile, la visione rischia di diventare un ricatto: curiosità, senso di appartenenza, voyeurismo globale. Se non hai visto non fai parte del mondo. Invece possiamo scegliere di non vedere, e di non far vedere. Possiamo spegnere i nostri Google Glass, smettere di riprendere, smettere di vedere. Possiamo chiudere gli occhi e liberare la nostra immaginazione. E magari abbandonare un film “disumano” e invece abbandonarsi nella visione di un film dove l’umanità si manifesta in flagranza. Peccato per gli svedesi, grande onore ai sudcoreani. E chi vuole capire…

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