LOCARNO 67: Il cinema come viaggio

lav diaz riceve il padro d'oro al festival di locarno

Addio al linguaggio, quello unico, spazio a più linguaggi. La ricchezza di questa 67° edizione del Festival di Locarno sta proprio in questa continua contaminazione di forme, generi, formati. Per questo, si è anche creata una sintesi ideale tra sperimentazione e spettacolarità. E la retrospettiva Titanus è stato un gran colpo

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lav diaz riceve il padro d'oro al festival di locarnoAddio al linguaggio, quello unico, spazio a più linguaggi. La ricchezza di questa 67° edizione del festival di Locarno sta proprio in questa continua contaminazione di forme, generi, formati. Per questo, si è anche creata una sintesi ideale tra sperimentazione e spettacolarità. Due eventi, apparentemente contrapposti, stanno ad indicarla. Da una parte l’apertura forte dell’ultimo film di Luc Besson, Lucy. Dall’altra il fenomeno Lav Diaz. E questo è l’esempio di un passaparola dove un film cresce proprio durante le prime giornate del festival. Mula sa king and ang noon (titolo internazionale, From What Is Before), aveva visto inizialmente pochissimi spettatori in sala, forse spaventati dalla consueta fluviale durata che caratterizza il cinema del regista filippino, in questo caso 338 minuti. Poi, nella replica successiva , prima della consacrazione con il Pardo d’oro assegnato dalla giuria presieduta da Gianfranco Rosi, c’era stato il tutto esaurito con una parte del pubblico rimasto fuori dalla sala. E così un altro evento è stato anche Adieu au langage di Jean-Luc Godard, premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes. Dove però, paradossalmente, proprio qui a Locarno, più che sulla Croisette, l’ultimo lavoro del maestro francese sembra aver trovato la sua collocazione ideale.

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adieu au langageIn questa seconda edizione diretta da Carlo Chatrian, il festival è andato oltre la sua ricerca, ha continuamente varcato confini geografici e soprattutto ha segnato un ponte continuo, rompendo gli argini temporali, tra passato, presente e futuro. Ed è così che si sono potuti incontrare contemporaneamente, tra gli altri Dario Argento e Jean-Pierre Léaud, Agnès Varda e Melanie Griffith, Mia Farrow e Juliette Binoche, Garrett Brown, Victor Erice e Giancarlo Giannini. In delle masterclass approfondite che poi diventavano, come nella tradizione del festival, sempre qualcosa di più. Quasi nei viaggi della memoria, ma anche focus approfonditi su uno stile, su un modo di fare cinema che però ha spesso avuto il merito di raccontarsi attraverso una comunicazione diretta e non chiusa, solo per addetti ai lavori. Il rimpianto per l’assenza di Roman Polanski, come abbiamo avuto modo di sottolineare nei giorni scorsi, non dipendeva dal festival, anzi è stato lui stesso ad essere maggiormente danneggiato da un’intromissione politica a gamba tesa.

In ogni caso, ci si poteva trovare negli anni Sessanta come nel 2020. Non ha più importanza il tempo, ma è il luogo che è oggettivamente fisso. Ma invece le sale sembrano continuamente muoversi, un po’ come l’ascensore/macchina del tempo  di Cavalho dinheiro di Pedro Costa.

Il Concorso Internazionale, ha confermato questa tendenza a un cinema che, oltre la visione, sembra continuamente viaggiare, ritornando oggi alla Rivoluzione dei papaveri  nel film già citato di Pedro Costa, uno dei suoi lavori maggiormente nitidi e insieme abissali del cineasta portoghese. Oppure passare, per esempio per la Corea, attraverso due aspetti diversi: il denaro come unica forma di sopravvivenza in Alive di Park Jungbum e lo spaesamento del proprio ritorno a casa in Gyeongju di Zhang Lu. O tornare a Dostoevskij attraverso il digitale nello straripante Nuits blanches sur la jetée di Paul Vecchiali. E anche in un film che ci ha convinto di meno, come Listen Up Philip di Alex Ross Perry, si è inghiottiti dentro New York dove due scrittori convivono con i loro demoni.

la legge della trombaInfine, dopo George Cukor, dell’anno scorso, un’altra grande retrospettiva. Se si indovina quella, non si è fatto metà festival, ma quasi. Nella retrospettiva Titanus è venuto anche a galla, la bellezza dell’apparente mancanza di un’apparente linea: commedie di successo come Pane, amore e fantasia e Poveri ma belli, i melodrammi di Raffaello Matarazzo, i film di Ermanno Olmi, Dino Risi Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Valerio Zurlini, Elio Petri, Francesco Rosi, Mario Bava, Antonio Pietrangeli, Alberto Lattuada, Mauro Bolognini, Riccardo Freda, Mario Monicelli, Giuseppe De Santis, Luigi Comencini, Vittorio De Sica. E in queste riscoperte, ricolpiscono tre titoli: lo straordinario e ancora oggi modernissimo I dolci inganni (1960) di Lattuada con Catherine Spaak che forse anticipa il personaggio di Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene (1965) di Pietrangeli; l’horror mutilato Il demonio (1963) di Brunello Rondi dove il paesaggio della Lucania sembrava popolato da zombie che si mettevano contro la protagonista; La legge della tromba (1962) di Augusto Tretti, di contagiosa follia, di una comicità impazzita, capace già di raccontare l’Italia con maschere che sembravano uscite da Tati.

Forse anche per il fatto che questa retrospettiva girerà nei prossimi mesi, Locarno non sembra un festival finito. Anzi, i gli 11 giorni di agosto appaiono come una tappa temporanea di una manifestazione che potrebbe durare anche tutto l’anno.

 

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