FESTIVAL DI ROMA 2014 – Mio papà, di Giulio Base (Alice nella città)

Per raccontare un dramma, bisogna aver voglia di sporcarsi le mani. E questo non accade nella patinata perfezione e prevedibilità (anche nella totale sconnessione) di Mio papà dove, neanche per un solo momento, ci si riesce realmente ad abbandonare all’irrazionalità della vita.

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Lorenzo (Giorgio Pasotti), lavora come subacqueo su una piattaforma vicino alla costa adriatica. Dedito completamente al lavoro, e nel rifiuto di una relazione stabile, passa le sue serate in cerca sempre di nuove avventure. Dopo aver conosciuto una sera in discoteca Claudia (Donatella Finocchiaro), si innamorerà di lei. Tra i due però, c’è un piccolo problema: si chiama Matteo (Niccolò Calvagna), ed è il figlio di Claudia.

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Giulio Base affronta un tema molto in voga negli ultimi anni al cinema, quello della paternità acquisita. Nell’ossessione di emozionare lo spettatore, il regista si perde in una ricerca senza sosta. Se nella prima metà del film si ha la sensazione che tutto proceda (noiosamente) secondo copione, nella seconda la storia si sgretola completamente e tutto cade in un grande abisso narrativo di momenti impensabili ed eventi scollegati tra di loro. Come se Base, pur di emozionare lo spettatore, decidesse di inserire forzatamente tutte le scene cliché rubate qua e la dalla storia del cinema: dal bacio sotto la pioggia alla prima recita scolastica, non manca proprio nulla. Quello di Mio papà è un vero e proprio bombardamento visivo, che porta a un sovraccarico di informazioni: tutto, compresi i più insignificanti spostamenti, deve essere mostrato (sempre ovviamente, nei limiti del cinema per famiglie). Più che voler raccontare la storia della difficile relazione tra un bambino e il padre adottivo, Base rimane incastrato nella paura di non essere in grado di affrontare il tema. Di conseguenza, emozionarsi o anche solo appassionarsi, è quasi impossibile: la freddezza con cui si susseguono gli eventi rende ogni scena un’isola deserta, un luogo a sé stante e senza vita.

 

Ma anche se presi in considerazione i singoli blocchi, del film non rimane nulla, tutto è stato già detto in maniera ben più interessante. Il confronto, necessario e lampante, è facile da immaginare anche di getto: i gesti del piccolo Matteo (pronto a smentirsi ad ogni inquadratura), risultano nulli in confronto alla genuina rabbia di Aria, L’Incompresa di Asia Argento. Il finale di Mio papà, nella sua conciliante irrealtà, non potrà mai raggiungere la vetta emotiva di un'altra sequenza finale, quella di Like Father Like Son, di Hirokazu Kore-eda. Questo perché Base sbaglia completamente l’approccio. Per raccontare un dramma, bisogna aver voglia di sporcarsi le mani. E questo non accade nella patinata perfezione e prevedibilità (anche nella totale sconnessione) di Mio papà dove, neanche per un solo momento, ci si riesce realmente ad abbandonare all’irrazionalità della vita.

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