FESTIVAL DI ROMA 2014 – Andiamo a quel paese, di Salvo Ficarra e Valentino Picone (Gala – Film di chiusura)

andiamo a quel paese

Ficarra e Picone, nella loro stralunata fisicità, si scoprono un po’ più cattivi, decisamente più scorretti. Ma soprattutto, al di là delle intenzioni e degli assunti, confermano definitivamente di essere i degni eredi di una comicità che in Italia non esiste più, quella di parola, dei calembour, delle situazioni ripetute e portate al limite del nonsense sovversivo

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andiamo a quel paeseIn Italia i morti comandano. Bellocchio già lo diceva. E Ficarra e Picone, ora, sembrano volerne dare la dimostrazione pratica, rendendo onore alle spoglie eterne di un politico onnipotente, un vero e proprio tormentone che ci accompagna per tutto il film. La commedia non rispetta niente, giustamente. Nemmeno la morte. Soprattutto la morte. E davvero Andiamo a quel paese sembra in lotta aperta con il tempo, le epoche andate e presenti, le zavorre del passato e le ansie del futuro, gli immobilismi di un paese fatto a misura per i morti e gli opportunisti. Appunto. Del resto la trovata diabolica di Salvo, a cui si presta suo malgrado Valentino, consiste nell’approfittare dei vecchi, subdolamente attirati in un ospizio improvvisato e clandestino.

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I due compari, dopo aver perso il lavoro, sono costretti a lasciare Palermo e a tornare in provincia, nel tranquillo paese di Monteforte. Ovviamente di opportunità lavorative neanche a parlarne, quella per la raccomandazione è una strada ancora lunga. E così l’unica fonte di guadagno possibile è data dalle oneste pensioni degli anziani parenti. La morte diviene la minaccia principale, a meno che non ci si assicuri in qualche modo la giusta reversibilità. Così Salvo convince il povero Valentino ad accasarsi con l’anziana zia Lucia in un matrimonio di convenienza. È la scoperta del petrolio. Una volta aperta la strada, in tutto il paese s’innesca una folle “caccia alla vecchia” che si propaga come una febbre (dell’oro). Ma ovviamente poi si mettono di mezzo i sentimenti, le tonache e via dicendo. Resta, in ogni caso, un cinismo di fondo nel quinto film di Ficarra e Picone, uno sguardo sarcastico e cupo che ormai sembra del tutto scomparso dalla commedia italiana, se non in alcune irriverenti uscite di Checco Zalone. È uno sguardo che viene fuori anche dai piccoli particolari – il momento in cui si intravede l’impiegato del municipio intento a timbrare i cartellini di tutti i colleghi – finendo per innervare l’intero film, al di là degli happy end da cinema popolare, con tanto di applausi a scena aperta.

 

Ficarra e Picone, nella loro stralunata fisicità, si scoprono un po’ più cattivi, decisamente più scorretti. Ma soprattutto, al di là delle intenzioni e degli assunti, confermano definitivamente di essere i degni eredi di una comicità che in Italia non esiste più, quella di parola, dei calembour, delle situazioni ripetute e portate al limite del nonsense sovversivo. Senza nessuna concessione alle derive scatologiche. In loro rivediamo i segni del cinema che fu, quello di Totò, Peppino, Aldo Fabrizi, delle libere interpretazioni che smarginano le sceneggiature, per farsi tormentoni dell’immaginario. Quel cinema puntuale e “aperto” di Camillo Mastrocinque e Mario Mattoli, tirato in ballo dall’immortale “se no desisti” di Miseria e nobiltà. La strana coppia, i due orfanelli sperduti a Monteforte, la vulcanica macchina da battute e la sua geniale spalla. Tutto sta nella suprema arte del “comico”. E poi, intorno, la storia, l’ambiente che guarda al Germi siciliano, gli ospiti d’onore (Frassica e Paolantoni su tutti, e non è un caso, se questa è la linea da seguire). Non siamo ancora alle vette supreme. Ma siamo a buon punto della strada.

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