SPECIALE SILS MARIA – La tentazione del serpente

snake of maloja

Maria Enders non è in grado di capire se quello che si sta materializzando davanti ai suoi occhi sia davvero il Serprente di Maloja. Non è in grado di riconoscere il fenomeno. E allora la sfida consiste proprio nel guardare tra le nebbie del Serpente, per decifrare e scorgere l’evento. Consiste nel dare un nome alle proprie visioni, nella capacità di leggerle, classificarle e interpretarle, per riagganciarle a una storia, a una linea di senso

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snake of malojaTutto ha inizio con la scomparsa di Wilhelm Melchior. La crisi di Maria Enders parte da lì, dalla notizia della morte del grande drammaturgo e regista: lo scopritore, il padre riconosciuto della sua arte, colui che le aveva insegnato la tecnica e la prassi, ma anche le ragioni segrete e le verità profonde della sua ispirazione. Ora, venuto meno l’Autore, quelle ragioni si perdono in un tempo lontano, come se appartenessero a un’altra dimensione, fantastica e non concreta, solo sognata e non vissuta. E quelle che sembravano “verità”, rimangono solo vaghe illusioni, confuse tra le nebbie della memoria e dei sentimenti. Morto l’Autore, la realtà delle cose perde consistenza, si fa incerta, labile, sfuma nelle regioni oscure del dubbio, della paura, dell’oblio. Perché è venuta meno la Ragione stessa che, finora, aveva governato il mondo, donandogli il suo equilibrio e le sue regole. Quella Ragione di fronte a cui le forme del tempo si aprivano in linee tracciate sui piani dello spazio (della messinscena) e ogni cosa si dispiegava in un senso chiaro, certo, cristallino, oltre l’arcano e le inconsistenze dei fenomeni. In un colpo solo, sono morti il drammaturgo ed il regista, quindi la norma e il giudizio, la scintilla creatrice e il principio dell’ordine. È morto Dio. Per Maria Enders, certo, ma anche per noi spettatori che guardiamo ormai in un indistinguibile intrico di apparizioni e disillusioni. È morto per tutti. Ed è qui, allora, a partire da questo dato, il punto di aggancio più nascosto e formidabile con quel dannato Nietzsche, al di là del richiamo immediato del luogo. Ma il luogo, comunque, non è una scelta innocente. Come Nietzsche, orfano di Dio e di una menzogna secolare, intuì tra le montagne dell’Engadina il segreto dell’eterno ritorno, così Maria Enders, tra le nuvole di Sils Maria, dovrà intuire una verità più abissale o vertiginosa su se stessa, sul senso de suo stare al mondo. Una verità che, però, non è nascosta aldilà delle pieghe del visibile, perché oltre quel visibile non c’è verità.

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snake of malojaMaria Enders non è in grado di capire, a primo impatto, se quello che si sta materializzando davanti ai suoi occhi sia davvero il Serprente di Maloja. Non è in grado di riconoscere il fenomeno. E allora la sfida consiste proprio nel guardare tra le nebbie del Serpente, per decifrare e scorgere l’evento. Consiste nel dare un nome alle proprie visioni, nella capacità di leggerle, classificarle e interpretarle, per riagganciarle a una storia, a una linea di senso. Poter distinguere, all’interno della sfera dei fenomeni, quelli concreti, materiali, pieni, vivi e quelle vaghi, illusori, deformati e deformanti. Separare le cose e i corpi dai miraggi e dai fantasmi, le illuminazioni dagli incubi. Nell’esatto istante in cui Maria afferma “sì, è il Serpente di Maloja”, ecco che avviene il miracolo e sparisce Val. Le nubi si materializzano e si diradano le nebbie. La visione riconquista la pienezza del mondo, al prezzo di una sparizione, dell’accettazione della solitudine dello sguardo, della propria esperienza, del proprio vissuto. 

 

snake of malojaUn film racconta sempre lo stato di salute di chi lo fa”, ci disse Assayas, alcuni anni fa. È chiaro, allora, che per lui la questione è distinguere l’essenza del cinema nella proliferazione incontrollata e futuristica degli schermi, dei nuovi modi di produzione, fruizione e comunicazione. Un linea di discrimine che permetta di stabilire delle differenze nella massa confusa delle immagini, di riconoscere e sovvertire tutte quelle traiettorie materiali e ideologiche, quelle forze economiche, culturali e spettacolari che manipolano le esperienze, dominano i nostri sentimenti e le nostre idee, lavorando sul terreno ambiguo dei desideri, dei bisogni, delle paure. Tutta l’angoscia di Maria Enders, in fondo, sta nel sentirsi obbligata al proprio ruolo di star, nella necessità di difenderlo oltre la cospirazione del tempo e degli altri. In questo meccanismo, la libertà è impossibile, è un’utopia. Solo quando sarà in grado di rinunciare ai propri fantasmi, di rinunciare gli specchi, alle proiezioni, ai doppi, alle illusioni ottiche, alle fate morgane, potrà ricominciare. Finalmente clean. Oltre i mostri e le sovrastrutture, rimangono le persone, la verità dei loro rapporti e delle loro relazioni con il mondo. Ed è il processo stesso del cinema, per Assayas, che prova a ritrovare la verginità (la pagina bianca, giustamente, lisca bianca), per liberarsi dalle ambiguità e sprigionare tutta la sua devastante potenza politica. Non più un semplice strumento di produzione di fantasmi, una fabbrica di sogni, di illusioni, di incubi, non più un’apprensione, ma una vera e propria tensione capace di leggere e ridefinire le storie, le esperienze. Forse è per questo che i film di Assayas sembrano sempre più delle incredibili zone archeologiche. Mettono in campo una pratica di scavo e recupero che possa diventare, al tempo stesso, un’ipotesi di interpretazione del presente e di disegno del futuro. Un’archeologia del cinema, certo, dove, però, la citazione non risponde a una sovrastruttura cinefila, ma a una messa in prospettiva politica. Ma anche un’archeologia che va oltre, fino al precinema dell’arte e della vita, affondando nelle ere geologiche della creazione e dello sguardo (Coppola?). L’impressionismo pittorico di Après Mai e L’heure d’été, come filtro dei ricordi. E qui in Sils Maria la musica di Händel e Pachelbel, che si sovrappone alle suggestioni del muto, di Bergman e Fassbinder. I film di Assayas hanno l’urgenza del presente, ma sembrano sempre provenire da un’altra dimensione, fuori dal tempo. Sono empirici, ma appaiono metafisici. Sono profondamente legati al concreto dell’esistenza, ma arrivano al culmine di tutta una storia del pensiero. Scoprono quel percorso sterrato che va da Renoir a Herzog, in un continuo passaggio tra il limite interno e l’esterno, il gioco e la sfida, l’amore e la tensione, il sociale e l’individuale, la regola e l’abnorme. Il cinema è un intervento che legge il reale e produce realtà. Umano, magnificamente umano.

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