TORINO 32 – Giorno 5 – Padri e figli

Decisamente interessante la versione integrale di The disappearance of Eleanor Rigby (Him e Her) di Ned Benson passata a Torino (Festa Mobile). Spunti apprezzabili, sebbene non completamente convincenti per i due film del concorso: Manges tes Morts di Jean-Charles Hue e Violet di Bas Devos. Sempre in Festa Mobile è passato The Mend di John Magary e chiudiamo, infine, per il Concorso Italiana Doc, con Habitat di Emiliano Dante.

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Padri mancati, padri assenti, padri soffereti e fratelli maggiori che fanno le veci dei padri. Un rapporto filiale problematico e non risolto caratterizza molte delle pellicole passate al festival a rappresentare, spesso, la difficoltà con la quale ci si confronta con le responsabilità, con l’ordine costituito, con le nostre stesse scelte.

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Si comincia con la crisi coniugale scatenata dalla paternità (e maternità) finita tragicamente (anche se non ci viene spiegato di più), dopo solo pochi mesi, di Connor (James McAvoy) ed Eleonor (Jessica Chastain) in The disappearance of Eleanor Rigby (Festa Mobile), già presentato, quest’anno, aCannes nella sezione “Un Certain renard”. Qui a Torino sono state presentate entrambe le versioni che Ned Benson ha dedicato al film: quella dal punto di vista di lui “Him” e quella opposta “Her”, a differenza della versione presentata a Cannes che costituiva un montaggio delle due, intitolata, appunto, “Them”. Ed è proprio nelle scene chiave “doppie” che scatta la magia di questa versione: vedere lo stesso incontro ma con piccole differenze, piccoli buchi di memoria: la camicia che portavi era blu o bianca? Sei tu che ti sei messo in braccio a me o io? Ed infine, sei stato tu a dirmi ti amo o sono stata io? Nel cinema, come nella vita, la verità oggettiva non esiste.

 

Nel lungometraggio d’esordio di John Magary The Mend (Festa Mobile) è ancora una crisi sentimentale a costringere i fratelli Mat (Josh Lucas) e Alan (Stephen Plunkett) ad una convivenza forzata nella quale riscopriranno, non senza difficoltà, il legame fraterno e si riavvicineranno anche al padre malato. Il film, anche per volontà dichiarata del regista, ha un andamento fortemente discontinuo nel quale momenti dal forte tono drammatico sono spesso l’innesco per situazioni di grande vivacità e divertimento.

 

Ancora un anomalo rapporto fra fratelli: nel quale uno dei due incarna le vesti del padre visto che quest’ultimo è morto (in uno scontro con la polizia) e lui è stato costretto a scontare 15 anni di galera per un furto fatto proprio per il sostentamento della famiglia, è al centro di Manges tes Morts (in Concorso), opera terza di Jean-Charles Hue (che nel 2009 era stato già presente al TFF con Carne Viva). Il film è ambientato nella comunità Rom francese di etnia Jenish (che è di origine centro europea ed alla quale apparteneva anche il bisnonno del regista) che è di religione cattolica. In occasione, proprio, del battesimo del diciottenne Jason (Jason François) esce di galera il fratello (adottivo) e capofamiglia Fred (Frédéric Dorkel) che trascinerà i membri maschi della famiglia in una “notte d’iniziazione” tra risse, furti e scontri con la polizia. L’opera ha senza dubbio il pregio di essere credibile nella sua voglia di rappresentare questa comunità con la maggior verosimiglianza possibile (il cast è composto quasi per intero da reali membri del gruppo Rom) ma si perde in un eccesso di verbosità e nella costruzione delle scene d'azione nelle quali manca, forse, ancora un po' di sicurezza.

 

E siamo ancora nel territorio dell'incomunicabilità familiare (ma anche sociale) in Violet di Bas Devos (in Concorso) nel quale il giovane Jesse assiste impotente all'omicidio (presumibilmente futile) del suo migliore amico nei corridoi di un centro commerciale deserto. Da quel momento fra lui e il mondo (primi fra tutti la sua famiglia ed i suoi amici) si alza una barriera di incomunicabilità che gli impedirà di elaborare il lutto. Se l'omicidio è ripreso in maniera distaccata attraverso gli schermi dei monitor di sorveglianza (da far tornare alla mente il primo Egoyan, ma anche Fear X di Refn), il resto della pellicola colpisce per la ricercatezza delle immgini (che a volte rischia di sfociare in un calligrafismo fine a se stesso) che, oltre ad essere girate in 4/3, sono spesso ulteriormente "ritagliate", fra ombre ed ostacoli vari alla visione, tendendo a ridurre la visuale e focalizzarla su un unico punto sempre estremamente lavorato, come un gioiello nelle mani di un orafo. Forse, davvero, quello che manca a questo film è la parola, visto che l'incomunicabilità sembra più una rinuncia preventiva che il fallimento di un metodo.

 

Ed infine, ancora di rapporti interpersonali (e anche di una paternità inattesa) parla Habitat di Emiliano Dante (in Concorso nella sezione Italiana Doc), che era già stato in concorso, sempre nella stessa sezione, nel 2009 con Into the blue. Come già nel primo film, con la "scusa" del terremoto, si seguono le dinamiche relazionali di alcune coppie di giovani in un contesto particolare, che è appunto quello di una città ancora stravolta nelle sue dinamiche elementari: la spazialità, le possibilità di aggregazione, ecc. Se nel primo film, le relazioni umane rappresentavano anche una sorta di reazione alla tragedia subita, cinque anni dopo le relazioni mutano ad una velocità vorticosa: le persone (si) cambiano, i lavori mutano, e le relazioni rischiano di trafmormarsi, forse non solo a L'Aquila, da appiglio alla vita a specchio della precarietà quotidiana.

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