BERLINALE 65 – Every Thing Will Be Fine, di Wim Wenders (Fuori concorso)

james franco e charlotte gainsbourg in every thing will be fine

Il cinema del regista non può più (s)fuggire in uno spazio. La terra (prima) dell'abbondanza può apparire arida. L'ultimo Wenders però è una sperimentazione frenata ma anche maestosa, che trova il suo punto di fuga nel tempo. Ha ancora bisogno di stare attaccato al suo immaginario, ma che sta coraggiosamente  cercando di non invecchiare. Questa non è più l'illusione 3D.

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james franco e charlotte gainsbourg in every thing will be fineCome una favola. Come se il 3D avesse spinto il cinema di Wenders verso altre forme/visioni: il modo di ri/vedere il documentario (lo strepitoso Pina), il legame col cinema statunitense come nel caso di quest'ultimo  Every Thing Will Be Fine. Più che un titolo, una frase ricorrente. Più che ripetuta, se ne sente l'eco in tutto il film. Quasi un piccolo pezzo di neve del paesaggio. La stessa neve di un film/dichiarazione/titolo: La vita è meravigliosa.

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Una sera d'inverno Tomas (James Franco), un romanziere, dopo una discussione con la sua fidanzata Sara (Rachel McAdams), inizia a guidare senza meta in una strada di campagna. Sta nevicando e improvvisamente compare davanti a lui una slitta con un bambino. I freni cedono, l'auto slitta. E' riuscito ad evitare l'incidente o no? Il bambino è salvo. Ma era da solo o no? Questo evento manderà progressivamente in frantumi la sua relazione. E lui stesso cadrà in una profonda depressione. La scrittura diventa l'unica arma per sfuggire alla sua condizione.

james franco e marie-josée croze in every thing will be fineJames Franco, curiosamente presente nei film di Herzog e Wenders i due cineasti tedeschi contemporanei più importanti, sembra guardare in macchina. E' solo un'illusione. Il suo sguardo invece è catturato da una soggettiva, tranne nell'inquadratura finale. Si, Every Thing Will Be Fine è anche un racconto in prima persona. Lo scrittore non nell'atto dell sua creazione, ma nel gioco parallelo tra scrittura e vita. E potrebbe già trattarsi di un romanzo autobiografico.

Sbanda sotto la tempesta Every Thing Will Be Fine. Rimbalza tra passato e presente. Il suo cinema non può più (s)fuggire in uno spazio. La corsa si interrompe subito. La terra (prima) dell'abbondanza può apparire arida. L'ultimo Wenders è una sperimentazione frenata ma anche maestosa, che trova il suo punto di fuga nel tempo. Il film procede per progressive ellissi. Che possono apparire come stacchi temporali netti. Ma che possono essere anche il proungamento, la metamorfosi di una magia. Con gli adulti che restano uguali a se stessi anche col passare degli anni. Con i figli che crescono e arrivano al momento della resa dei conti.

james franco e rachel mc adams in every thing will be fineWenders sbanda. Tra passato e presente. Tra le 'ombre bianche' di Nicholas Ray mescolato con Il grande e potente Oz di Raimi, quasi riciclaggio della figura di Franco. Forse voleva i giganti di Tim Burton di Big Fish. Forse ci sono e crescono progressivamente nell'immaginazione. Forse si vedono in quei colori innaturali della fotografia di Debie. Con quelle sensazioni di ipnosi già create per Gaspar Noé (Enter the Void) ed Harmony Korine (Spring Breakers) che qui trasformano la pop-tecno in una dolente ballata.

Probabilmente Every Thing Will Be Fine è una nuova dimensione del cinema di Wenders. Un road-movie che non può più attraversare il paesaggio e viaggia nel corso del tempo. Che ha dei momenti potentissimi, come l'incidente nel luna park. Che vuole abbattere lo spazio come nella telefonata tra Tomas e Kate, la mamma del bambino/i, interpretata da una dolente Charlotte Gainsbourg che qui sembra sempre più un'attrice venuta dal passato. Con i due personaggi sono separati ma compaiono come fantasmi nella stessa inquadratura. Come magie. Dissolvenze di un'unione negata.

Ma è anche un film su una condizione emotiva. Ed è quella, nei suoi difetti, che fa vibrare Every Thing Will Be Fine. Da quei vetri delle finestre, dove c'è la trappola di stare lì dentro e il desiderio di uscire fuori. Proprio come la contraddizione di quest'ultimo Wenders. Tra paura e desiderio, appunto. Che lascia i personaggi nella loro solitudine. Che non gli nega i suoi necessari abbracci. Quello di un cinema che ha ancora bisogno di stare attaccato al suo immaginario, ma che sta coraggiosamente cercando di non invecchiare. Questa non è più l'illusione 3D. E' Wenders stesso che resta diviso. Le schegge dei frammenti non tornano. Ma è anche qui la magia di un cinema che stavolta deve ricomporsi daccapo. Pezzo dopo pezzo.

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