Blog DIGIMON(DI) – Lincoln, il controluce della Storia


Tutto Lincoln è una ricerca del tradimento, della menzogna, quindi sulla illegalità dell’agire, ma in questo caso finalizzato a una sorta di “bene supremo” superiore, la fine del dominio dell’uomo sull’uomo, la fine della schiavitù. Continua sul blog DIGIMON(DI) di Federico Chiacchiari

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A volte i sensi, dello spettatore, ingannano. E a volte, l’inganno, sembra quasi voluto, come ossessivamente ricercato. Ed ecco perché il Lincoln di Steven Spielberg ci appare – e in qualche modo è – così assolutamente scritto. Il trionfo della parola, che domina, apparentemente incontrastata per tutta la lunga durata del film. Come se la Storia, di cui Spielberg vuole mostrarci un piccolo, drammatico scorcio/squarcio, dovesse necessariamente essere ricondotta al linguaggio verbale, per riconoscerne il senso e le direttrici. E infatti Lincoln è la parola, sin dalla prima scena del film, con il Presidente seduto sotto una tenda, di notte con la pioggia che batte, a parlare con i soldati reduci dalla battaglia. E poi ancora parole, con il fedele segretario di stato, con i ministri del governo, con i membri della maggioranza e dell’opposizione, con la moglie, il figlio piccolo, il baldo figliolo grande, la sua domestica di colore e tutti gli altri.

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Eppure…

Eppure Lincoln in questo apparente trionfo della parola sull’azione e sullo “sguardo”, ci svela nel suo manifestarsi a noi, il potere incredibile della falsità, del mentire, del tradire.

Tutto il film è una ricerca del tradimento, della menzogna, quindi sulla illegalità dell’agire, ma in questo caso finalizzato a una sorta di “bene supremo” superiore, la fine del dominio dell’uomo sull’uomo, la fine della schiavitù. E’ come se di fronte ad una battaglia etica di così suprema importanza, sia non solo perdonabile ma persino, in qualche modo, auspicabile che si usino tutte le armi possibili, compresa la menzogna, l’inganno, il tradimento.  E se per il Presidente questa è una doverosa “scelta morale” dall’inizio della sua battaglia, non altrettanto lo è per il senatore Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones), che nella scene più eloquente del film, mentirà esplicitamente di fronte al Parlamento sulle sue vere idee ed intenzioni, pur di fare in modo che il Decreto antischiavista abbia successo e divenga, finalmente, legge. E finalmente potà tornare a casa, togliersi la ridicola parrucca, e stare nell’intimità con la sua cameriera indiana, che di fatto è sua moglie.

In questo meraviglioso elogio della falsità, Spielberg ci regala, grazie alla sapienza del suo mago delle luci Janusz Kaminski, delle immagini di rara bellezza e soprattutto di una chiarezza “teorica” quasi imbarazzante.

La luce è sempre nel fuori campo. La vita stessa sembra essere fuori dagli ambienti in cui si decide la Storia. O meglio, la Storia è lì fuori, le luci penetrano dalle finestre e illuminano le stanze buie dove il Presidente agisce,  tra la Politica, la Famiglia, e tutte le storie di cui un uomo deve occuparsi.

 

La luce arriva di taglio, sempre da fuori, di giorno come di notte. Fuori è il mondo, la guerra, la vita, la morte. Meravigliosamente, con un doppio gioco sorprendente, persino la morte del Presidente arriva fuoricampo, anche se ce l’aspettiamo in campo, nel teatro che non è però quello dell’assassinio di Lincoln. La Storia arriva in controluce, in Lincoln. Taglia gli interni come una lama, segnala l’intimità di questa storia, non una biografia del Presidente Lincoln ma un disegno di un tratto del suo percorso sulla Terra, quello che ha segnato la Storia. Che pure, nel controluce degli interni, è sempre lì fuori, quella finestra dove Lincoln si affaccerà per ascoltare – ancora fuori campo – la vittoria della sua proposta di legge.

La luce, la storia, la morte. Lincoln di Spielberg ci racconta, mentendoci, convincendoci che il suo è un film di pura parola, che la menzogna a volte è necessaria per far vincere la Storia, anche se qui, nel cinema, è quella con la “s” minuscola…

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    Un commento

    • menzogna: storia del popolo americano di Zinn riporta efficacemente le ragioni pro-abolizioniste di lincoln, descritto in una breve scena come l'unico essere puro, del resto destinato da spielberg a sparire dalla scena sul modello e.t. Il problema della schiavitù e del dopo emendamento (scena in cui lincoln parla brevemente con la cameriera della moglie) è lasciato in sospeso ma del resto griffith in nascita di una nazione (i cappucci bianchi) l'aveva descritta egregiamente. Quanto alle virtù filmiche di questo lavoro lascio a voi tutta la poesia, mi chiedo solo a chi è destinato questo lavoro e quale effetto ideologico vuole ottenere. Quasi quasi preferisco The conspirator. Grande Daniel Day Lewis, ma in Il Petroliere è un gigante.