CAPTAIN PHILLIPS – Il peso dell'acqua


Tante storie di piccole zattere in cui personaggi lottano per la propria sopravvivenza contro le correnti marine, nella stagione di cinema che stiamo vivendo: ovviamente la metafora produttiva è lampante e dichiarata, e sembra nascondere l'impossibilità di fare cinema spettacolare a Hollywood senza affrontare le onde giganti dell'oceano blockbuster

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L'acqua è poca, e la papera non galleggia

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Il movimento di macchina maggiormente emblematico Greengrass lo compie dall'alto, nell'istante in cui fa inquadrare dalla sua plongée tutta la lunghezza effettiva del cavo tirato che tiene unite a distanza la nave militare USA e la minuscola scialuppa dentro cui il capitano Phillips è ostaggio di quattro pirati somali: è l'unico momento in cui il cineasta mostra la reale dimensione degli spazi messi in ballo all'interno del suo ultimo, ancora una volta portentoso, film. Una nuova sfida al cinema e allo spettatore: ecco di quanti metri parliamo, adesso scordatevi quest'immagine così precisa e informativa, perché siamo tutti bendati come Phillips, e c'è bisogno di quattro bersagli verdi per agire, se solo restassero fermi, e poi è un attimo. Un colpo solo, mica una sparatoria pirotecnica e catartica come un tempo si sarebbe risolta la pellicola: nemmeno a Greengrass va di fare un massiccio blockbuster classico con i somali-o-chi-per-loro cattivissimi che tengono in ostaggio gli americani per bene sulla nave come in un film di Steven Seagal, finché non arriva una Delta Force cazzutissima e sistema la faccenda a suon di smitragliate. E dopo la sezione di cinema meno frenetico mai girata in carriera, il regista lascia perdere il canovaccio ad alta tensione della trappola in alto mare per andarsi a rinchiudere per un'ora e passa in un set pazzescamente ristretto, una sorta di Smart delle acque in cui ambientare la guerra dei mondi e dei nervi tra Phillips e i somali armati e drogati.

Certo, come l'ingenuo Patel disperso nell'oceano digitale insieme agli animali dello zoo e soprattutto alla tigre Richard Parker in quella sorta di megapannello da sala d'aspetto di spa che è Vita di Pi di Ang Lee, verrebbe da pensare. E però la distanza è siderale, la differenza è sostanziale: il mare a cui Ang Lee si bagna è quello della storia, della memoria, della reinvenzione fantastica del passato, di fatto l'acqua del suo film è più che altro il fluido trasparente da colorare di volta in volta per trasformarlo in questa o quella immagine di ricostruzione mentale di un naufragio lungo un sogno: nulla che non sia già scritto, ancora una volta, con buona pace degli sforzi di visionarietà new age del pacchetto formale/bastone della pioggia d'arredamento. Il mare di Greengrass somiglia invece più allo schermo buio e nero, insondabile e inintelligibile, in cui annegava la propria disperazione il Matty di Blackout di Abel Ferrara. Tante storie di piccole zattere in cui personaggi abbandonati dal mondo intero lottano per la propria sopravvivenza contro le correnti (non è in sostanza anche la sinossi dell'antiquatissimo Gravity?), nella stagione di cinema che stiamo vivendo: ovviamente la metafora produttiva è lampante e dichiarata, e ricorda probabilmente quel racconto allegorico di Sant'Agostino che incontra in spiaggia un angelo sotto le mentite spoglie di un bambino che cerca di travasare l'intero oceano in una stretta buca nella sabbia: questa buca può contenere il mare più facilmente di quanto la mente umana possa contenere il mistero della Trinità, spiega il messo divino al frate, il quale magari in quell'istante si è addirittura rammaricato dello stesso cruccio di Von Sternberg, che odiava dover usare acqua vera sui suoi set, non poter riuscire ancora a fingerla in studio.

E' a JC Chandor che riesce il miracolo. Il suo All is lost da un lato sembra chiudere tutto questo discorso: Robert Redford è solo, prima sulla sua barca e poi sul gommone giallo di salvataggio, e contro di lui si agitano le onde e gli elementi atmosferici. Di lui nulla sappiamo e nulla sapremo, nemmeno il nome (nomina nuda tenemus) o lo scopo della disgraziata crociera solitaria – solo un corpo contro la natura. Eppure questo aspetto di azzardo autoriale da parte del giovane regista, questo rigore da cinema di ricerca, gli accademici direbbero purovisibile (del nostro unico personaggio non raccontiamo alcunché), in realtà spinge All is lost ad essere l'unico vero, solido blockbuster possibile in mare oggi. Perché come un nuovo eroe senza nome di un action senza ulteriori pretese, Redford nel film di Chandor è sempre in azione, intento nelle più mirabolanti imprese di sopportazione fisica e muscolare come un canuto expendable stalloniano (scala altissimi alberi maestri, resiste a violente inondazioni, incendi…). E non a caso quello che sembra l'exploit più low budget e indipendente di tutti (un solo attore in mare) poi sui titoli di coda svela d'aver avuto bisogno nientedimeno che di Michael Bay e della Lucasarts per poter effettuare le riprese in mare aperto, come Colombo che chiede di finanziare le caravelle ai regnanti dell'epoca.
O come il capitano Solo del celebre racconto di Romagnoli, che è l'unico dell'equipaggio a sapere che la nave su cui viaggiano è una nave in bottiglia, l’unico a vedere il vetro, trasparente e imperforabile, che la protegge dalle tempeste. Ma le impedisce qualsiasi approdo.

*scritto il 28/10 ascoltando in cuffia il bootleg registato al Roxy Theater di Los Angeles il 1° dicembre del 1976 di Lou Reed con Don Cherry, noto anche come “Claim to fame”, per chi scrive il più grande live mai catturato clandestinamente sulla terraferma

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