GO DOWN, EXODUS. Il falso Mosè di Romeo Castellucci e Ridley Scott

go down exodus

Andata e ritorno tra il teatrale Go Down, Moses di Romeo Castellucci e il cinematografico Exodus – Dei e Re di Ridley Scott, i quali partendo ognuno dalla propria trincea cercano di ricomporre dei paradossi visivi per narrare la storia dell’alleanza tra Dio e Israele. Fallendo entrambi, perché l’immagine della divinità non è di questa terra, è buio, è l’Angelo Sterminatore che bussa alla porta.

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C’è un momento, un versetto che nessuno, dai cartoon DreamWorks ai monologhi di George Carlin, ricorda dei quattrocentrotrent’anni che Israele passò sotto il giogo dei faraoni egiziani, la Nona Piaga, il Buio: “Il Signore disse a Mosè: ‘Stendi la tua mano verso il cielo: ci sarà il buio sul paese d’Egitto, un buio da poterlo palpare’ ”; e poi: “Mosè stese la sua mano verso il cielo e ci fu un buio cupo in tutto il paese d’Egitto per tre giorni. Nessuno vide il proprio fratello e nessuno si alzò in piedi per tre giorni, ma tutti i figli di Israele avevano luce dove risidievano”; e alla fine di questo capitolo 11, in risposta al faraone che scaccia Mosè minacciandolo di non far vedere più il suo volto altrimenti sarebbe stata la sua morte, il profeta pronuncia: “Hai detto bene: non vedrò più il tuo volto”. Il libro dell’Esodo è questo, una serie abbacinante di immagini che non tornano, che non possono tornare, e poco prima dell’atto finale con cui il Dio vendicativo e geloso degli Ebrei piega l’Egitto, la morte dei primogeniti, non ci può che essere l’immagine che racchiude tutte le immagini, dove c’è tutto quello che è e che potrebbe essere – il buio. Una somma maggiore delle parti, ineludibile, perché oltre non si potrebbe vedere, perché dopo il buio non c’è che l’Angelo Sterminatore ad ogni porta d’Egitto, perché così deve essere.

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Avere a che fare con il secondo libro del Pentateuco è maneggiare un oggetto impossibile, un triangolo di Penrose o un poiuyt, e Romeo Castellucci con Go Down, Moses e Ridley Scott con Exodus – Dei e Re l’hanno fatto, cercando di portare nella propria – e nella nostra – testa questo esodo di immagini. Ognuno è partito dalla propria trincea, il teatro e il cinema, per arrivare alla massima concentrazione di essi per la produzione di una serie di paradossi visivi che possano, soltanto, narrare una storia, la Storia per eccellenza, quella del patto unico e indivisibile tra Dio e Israele. E non è un caso anzi una necessità che a farlo siano due nomi come Castellucci e Scott, tra i massimi produttori di immagini e visioni ed evocazioni che si ricordino da trenta anni a questa parte, testardamente impossibilitati a non-credere che l’immagine racchiuda tutto, come il cavallo nero che scalpita nel buio della Tragedia Endogonidia e poi viene lavato con il latte, come i raggi B che balenano nel buio dello spazio profondo di Blade Runner un attimo prima di morire. Il buio che racchiude l’arrivo dell’Angelo Sterminatore, il buio che cela il Signore ogni volta che si palesa nella sua Tenda della Testimonianza è la non-immagine della divinità, l’unica possibile su questa terra, ed è questa che inseguono Castellucci e Scott, perché ridare forma al profeta, legislatore e condottiero è tentare di nuovo l’incredibile cercato da Mosé, vedere – e quindi capire – Dio: “Non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere. Ecco un luogo vicino a me: ti terrai sulla roccia. Quando passerò la mia gloria, ti metterò nella fenditura della roccia e ti coprirò con la mia palma fino a quando sarò passato; poi ritirerò la mia palma e mi vedrai di spalla; ma il mio volto non si vedrà”.

 

Go Down, Moses è uno spettacolo minore nella teatrografia propria di Romeo Castellucci e della Socìetas Raffaello Sanzio tutta, eppure così chiaro, esemplificativo, esatto. C’è compresso un trentennio di teatro fatto di purissime eppure fragili immagini che trovano compimento e posto soltanto nella mente dello spettatore, in quella finale e ideale visione data dall’equazione poco prima irrisolvibile di quanto visto in scena. Una serie incatenata di quadri, installazioni, che simultaneamente riportano tutti i sensi possibili di un evento, come questo Go Down, Moses che è negro spiritual cantato durante il Seder di Pesach, parto disperato eppure voluto, interni borghesi che rimirano il liberatore. E’ questa l’unica immagine realizzabile per Castellucci, la rifrazione in tutti i tempi e in tutti i luoghi di Mosè, mai veramente lui ma sempre lui. Per farlo, per portarlo a noi, si ricorre all’unica forza da sempre possibile nei suoi lavori, la macchina-teatro, cavi, quinte, congegni di cui si ode il funzionamento e si sente la massa, echi di un Dio laborioso e ingegnoso che numera le piaghe da allontanare e le festività da osservare. Una manifestazione scenica che stritola fino a far schizzare un’ultima, lontana, provvisoria convergenza, l’elezione di un popolo primordiale e politeista che chiede aiuto per, ancora, la morte di un bambino…

 

Exodus è l’ultima traccia di un sentiero quindicinale che ha portato Ridley Scott da Il gladiatore a Prometheus, passando per Black Hawk Down, Le crociate e Robin Hood. Tre lustri di preparazione per un film che fagocita e risputa quanto già visto prima, la fuga in un paese straniero, il deserto che attira le guerre, l’origine della divinità, momenti necessari per raggiungere la consapevolezza che nessuna altra immagine sarà più possibile dopo: Exodus è una sovrapposizione di altre immagini, un radunarsi di quadri, fotogrammi, vignette, è storia del cinema e dell’arte tutta che per babelica sommatoria tenta di raggiungere l’insensatezza divina, il buio della sua manifestazione. E lo fa grazie al suo essere falsità, menzogna, cioè immagine cinematografica e non inaggirabili corpo e presenza teatrale. Scott è senza paura, compone un’inquadratura pullulante di masse, paesaggi, calamità, che però non schianta sotto questo peso perché oramai divenuta irreale, impossibile. Exodus tiene insieme il roveto ardente e la febbre di Mosè, le dieci piaghe d’Egitto e la guerriglia ebraica, fino all’ultima composizione possibile, Dio e Mosè, che noi spettatori vediamo assieme quando guardiamo con Mosè e che non vediamo quando guardiamo con Giosuè, noi spettatori che pensavamo di aver visto tutto, di poter vedere tutto.

 

Foto di Guido Mencari (www.gmencari)

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