Lars Von Trier e il cinema do(g)mato

Dilemma tra fede e ragione. Quali comandamenti hanno un senso, e quali domande sensate ammettono una risposta da essi? Il cinema delle regole è un delitto perfetto, senza delinquente, senza vittima e senza movente. Un delitto la cui verità si sarebbe ritirata per sempre e il cui segreto non sarebbe mai scoperto, per mancanza di tracce autoriali.

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In questo istante, che è più importante del tutto (vedi manifesto), è come trovarsi in un parco naturale e l'orso ha espletato i suoi bisogni in un sacchetto di plastica. La "bestia" do(g)mata è la percezione seriale dell'arte, la scarsa resistenza alla pulsione fondamentale di non lasciare tracce. L'applicazione pedissequa delle regole è un falso problema; è come quando ci si crede furbi e migliori scoprendo le falsità e i trucchi di quei programmi televisivi di (in)trattenimento. La combriccola danese aderisce raramente all'uniforme estetico-strutturale "imposta". I suoi seguaci si confondono tra gli indovini e non con i profeti. I primi esternano ciò che ci piace sentire, i secondi ciò da cui vorremmo fuggire. Imbracciata la videocamera digitale, ognuno di noi, potenzialmente, è in grado   realizzare un film e sperare di vincere il Festival. La minaccia si annida non nell'omologazione normativa delle forme filmiche, ma nella standardizzazione dei contenuti, ovvero in una dittatura seriale occulta e pervasiva. Occulta ma pervasiva come la macchina da presa in Festen che si aggira tra gli invitati come un ospite segreto, con la presunzione di inconsapevolezza per quello che accade intorno ad essa.  Nel decalogo è proibita l'alienazione temporale o geografica perciò la verità è braccata, non ha scampo, deve uscire allo scoperto. Si vive nell'illusione che sia il reale a mancare maggiormente, mentre invece la realtà è al suo culmine. La tempesta tecnologica, da cui conseguirà la definitiva democratizzazione del cinema (sempre secondo il manifesto), ha comportato un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà, la quale poteva per lo meno essere compensata con l'utopia e con l'immaginario. Nel paradosso dei doppi vincoli il "Dogma 95" è un movimento (?) che sussurra: "Armiamoci a spalla e… partite". Dilemma tra fede e ragione. Quali comandamenti hanno un senso, e quali domande sensate ammettono una risposta da essi? Il cinema delle regole è un delitto perfetto, senza delinquente, senza vittima e senza movente. Un delitto la cui verità si sarebbe ritirata per sempre e il cui segreto non sarebbe mai scoperto, per mancanza di tracce autoriali. Andando oltre la schizofrenia, tutta l'attività comunicativa superiore del "Dogma 95" sembra essere un'espressione del paradosso del Mentitore. Dire: "Questo è un gioco" tra gli animali o tra gli abitanti di Dogville significa: "Ciò che sto facendo non è ciò che sto facendo". Il segno (simulazione di lotta) non è il messaggio, però la mappa priva di pareti fa crollare il territorio/cinema nel baratro del modellato. La via d'uscita: rifiuto costante della comunicazione puramente letterale, per dedicarsi alla ricerca di significati reconditi e metalinguistici. In una sola parola: para(noia). La libertà vigilata è solo simulacro del cinema essenzialmente anarchico; anarchismo teorico più aperto e umanitario ad incoraggiare il progresso che non le sue alternative fondate sulla legge e sull'ordine. "Dogma 95" si dimena tra fede e blasfemia razionale (24 telecamere per una sola inquadratura!!!), il cinema non può schierarsi: anche la ragione, va ridotta al silenzio o manifestata senza pudore.           

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    Un commento

    • Secondo me l'estensore di questo articolo è pazzo, almeno quanto Lars Von Trier. E non è un complimento (alla faccia di Basaglia).