Val Guest: il realismo del fantasy

Un regista "commerciale", che in cinquant'anni di carriera ha attraversato parecchi generi eccellendo in quello fantascientifico, dove si è distinto per la messinscena essenziale, la cura nella direzione degli attori e il pessimismo sul futuro dell'uomo in rapporto alla tecnologia. Ritratto di un artista eclettico scomparso pochi giorni fa.

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Citato in molti testi come un maestro del fantastico, Val Guest, per sua stessa ammissione, non era un amante della fantascienza, per lo meno non prima che il genere incrociasse la sua strada. In questo è forse più corretta la definizione che Joe Dante, suo grande fan, ha dato al Los Angeles Times in occasione della scomparsa: un "commercial director", che in 50 anni di carriera ha toccato vari generi, regalandoci "tante piccole gemme che, si spera, ora potranno essere recuperate".

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Un artista eclettico, insomma, nato a Londa nel 1911 come Valmond Maurice Grossman e che iniziò la sua carriera nel mondo dello spettacolo come attore, salvo poi ritrovarsi dall'altra parte della barricata, a scrivere recensioni cinematografiche come corrispondente inglese dell'Hollywood Reporter. E' in questa veste che stroncò con sprezzante ironia il film Chandu the Magician di William Cameron Menzies e Marcel Varnel (con Bela Lugosi), dichiarando che avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura migliore persino con un braccio legato dietro la schiena. Inaspettatamente Varnel lo invitò a lavorare allo script del suo film successivo, No Monkey Business, aprendogli le porte a una carriera di sceneggiatore. Eravamo nel 1935 e il debutto come regista avvenne otto anni dopo, nel 1943, con la commedia musicale Miss London Ltd., della quale fu anche cosceneggiatore.

Esaurito il rapporto di collaborazione con Varnel, l'ulteriore salto di qualità arrivò quando la Hammer lo chiamò a dirigere la riduzione cinematografica del celeberrimo serial televisivo The Quatermass Experiment (1953). In realtà Guest non aveva visto lo sceneggiato e quando Anthony Hinds, boss della casa di produzione inglese, gli passò alcuni copioni da leggere per fargli capire di cosa la storia trattasse, lui si decise a farlo solo dietro pressione della moglie Yolande Donlan, inseparabile compagna di vita, rimastagli accanto sino ai suoi ultimi giorni.


Accettata la sfida, Guest chiese e ottenne carta bianca dalla Hammer, codificando l'approccio che nel tempo gli avrebbe reso gloria e che lo avrebbe innalzato agli annali del fantastico: trattare cioè la storia non come un racconto spettacolare, ma come un evento verosimile, narrato dunque con uno stile secco e documentaristico, come se stesse girando un reportage televisivo. Una costante di tutti i suoi film fantasy è infatti l'estrema parsimonia nella comparsa delle creature aliene, controbilanciata da una grande attenzione alla direzione degli attori. L'astronave atomica del dottor Quatermass (1955) si fa dunque notare ancora oggi per la sofferta performance di Richard Wordsworth, l'astronauta che subisce una mostruosa mutazione, e per l'energico piglio di Brian Donlevy, il miglior Quatermass che abbia mai solcato lo schermo. E anche la comparsa finale del mostro, nell'abbazia di Westminster, non scalfisce l'aura drammatica di un classico della fantascienza inglese.

Un'altra importante caratteristica del fantasy di Guest riguarda il suo pessimismo circa la deriva antiumanistica cui il mondo è condannato per l'uso scriteriato della scienza: nelle sue storie l'uomo è pervaso da un istinto autodistruttivo che la tecnologia esprime in maniera drammatica, fino alle estreme conseguenze.


Da questo punto di vista vale la pena citare il pregevole e poco considerato Il mostruoso uomo delle nevi (1957), interpretato da Peter Cushing e incentrato sulla figura dello Yeti. Ancora una volta la creatura è soltanto intravista (pare che in questo caso lo sceneggiatore Nigel Kneale avesse consigliato a Guest di ridurre ulteriormente il footage che rivelava le fattezze del mostro) e ci si sofferma sui rapporti tra i personaggi e sull'indole bestiale dell'uomo, che nello Yeti trova un rispecchiamento, ma anche un esempio di purezza selvaggia non contaminata dalla tecnologia e per questo meritevole del rispetto di regista e spettatori. Ma soprattutto è il bellissimo E la terra prese fuoco (1962) a costituire il punto di non ritorno della poetica: un primigenio esempio di film catastrofico, dove si prefigura lo spostamento dell'asse e il cambiamento dell'orbita terrestri a causa degli esperimenti atomici eseguiti da americani e sovietici. In questo caso la storia è condotta con dialoghi incalzanti e un sottotesto sentimentale che unisce il disilluso giornalista Pete Stenning (Edward Judd) alla giovane centralinista Jenny Craig (Janet Munro). Più che sul disastro ecologico il film focalizza la propria attenzione sulle reazioni degli uomini, concentrando la vicenda quasi totalmente in interni, con un tono asfissiante e altamente drammatico che culmina in un magnifico finale sospeso, dove le sorti del mondo vengono lasciate all'immaginazione dello spettatore. L'impatto della pellicola fu tale che il Presidente americano John Kennedy ne chiese una copia da mostrare a Washington a 200 corrispondenti esteri.

Il resto della carriera si snodò nel segno della diversificazione dei generi, da ricordare sono soprattutto il poliziesco L'assassino è alla porta (1960) con Stanley Baker, molto apprezzato dalle stesse forze dell'ordine, e soprattutto la collaborazione al film collettivo Casinò Royale (1967), pellicola parodistica dedicata alla figura di James Bond: un progetto che Guest accettò per lavorare al fianco di John Huston, dopo che era stato inizialmente contattato per lavorare alla serie ufficiale dell'agente 007, per la quale fu proprio lui a suggerire il nome di Sean Connery.


Gli anni settanta si aprirono con un parziale ritorno al fantasy, Quando i dinosauri si mordevano la coda, e lo videro poi collaborare a serie televisive come Spazio 1999 (seconda stagione) mentre la partecipazione ad Hammer House of Mistery and Suspense/L'ora del mistero sancì un breve ritorno allo Studio che gli aveva regalato fortuna. L'ultima regia fu nel 1982, con la commedia The Boys in Blue. Negli anni più recenti Guest, spesso invitato a numerosi festival e convention del fantastico, aveva dato alle stampe la sua autobiografia "So You Want to Be in Pictures". La morte è avvenuta per cancro alla prostata il 10 maggio 2006 a Palm Desert, California.

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