PROFILI – Shohei Imamura: maestro di realismo

Esce in Italia “Acqua tiepida sotto un ponte rosso”, occasione per ripensare al cinema di questo 76enne cineasta giapponese, sempre tanto premiato quanto poco distribuito

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Bizzarro destino quello capitato alla produzione di Imamura, il quale nonostante abbia vinto ben due volte la Palma d’Oro a Cannes e aver ricevuto svariati premi, non è mai riuscito a varcare la soglia di un’adeguata distribuzione per i propri film. Attraverso il suo magico realismo s’indagano le relazioni tra la parte bassa del corpo umano e la parte bassa della struttura sociale, sulla quale si sostiene la realtà della vita quotidiana giapponese. Un mondo di personaggi invischiati nel torbido dell’esistenza, creature fragilissime come carta di riso, o crudelmente spietate, descritte al limite tra il documentario e la più visionaria fantasia.
Disancorandosi dalla scontata percezione oleografica del Giappone sono gli shomin (gente comune), le persone ai margini del mondo, l’anima dell’opera di Imamura. L’umanità afflitta che si contorce nell’inquietudine compone un ritratto straziante di morte e pietà che scompiglia le condizioni melodrammatiche del cinema giapponese. Il cinema come rappresentazione dei desideri più istintivi e animaleschi e come rifiuto del sentimentalismo e dell’identificazione del pubblico. A stagliarsi nella mente sono i dipinti di Utamaro e una poetica esistenzialista.

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streetcar Named Desire”) e Arthur Miller e immergendo in una dimensione grottesca la bellezza decadente della cultura Edo e del Kabuki, Imamura non si perde nelle proprie radici ma si mimetizza perfettamente con il Giappone post-seconda guerra mondiale, bombardato dalla civiltà occidentale. La rilettura della tradizione lascia intatte le qualità umane all’interno della società, nonostante l’avvicendarsi d’influenze esterne.
Assistente di Ozu nei primi anni, Imamura si discosta da quel cinema concentrato sull’aspetto estetico in cui gli attori sono istruiti su ogni dettaglio. Il reale prende il sopravvento: descrivere il crimine come naturale, gli uomini come grucce brechtiane, le donne senza pretese femministe e senza conferirle dignità sociale e politica. Vivere per sopravvivere: è il Giappone, terra di conquista del “primo mondo”, che impone la legge della produttività.
Dal 1958 – anno d’esordio del regista – a oggi, Shohei Imamura ha percorso il suo cammino mai facendosi sopraffare dalle foghe filmiche del momento ma consapevole di dover fare i conti con una stagione di grandissimo cinema che andava spegnendosi. Ossessionato forse più dal genere umano che dagli altri cineasti, non c’è inquadratura che sia priva di azione umana; non ci sono paesaggi vuoti o stacchi immotivati. La cinepresa che sovente quasi sbatte contro i volti degli attori non intende solo spiegare i personaggi ma vuole “sorprendersi” nel catturare la minima azione, la sfumatura più sottile, l’espressione psicologica più intima.
Il suo primo amore, il teatro, spinge Imamura a cominciare l’avventura cinematografica. “Desiderio rubato” è la storia di una sconquassata compagnia teatrale itinerante che racchiude in sé quell’umanità che più interessa raccontare. Con una mistura stilistica, che accompagnerà un po’ tutto il cinema di Imamura, fatta di voyeurismo documentario e un’appassionata descrizione a soggetto, viene ripresa la società di estrazione più umile in cui si sente ancora più forte la lotta tra la sfrenata modernizzazione del Paese e la tradizione culturale. Paladino dell’antica identità teatrale giapponese non è l’anziano capo comico, pronto a proporre spettacoli più frivoli ma più remunerativi, ma è il giovane sceneggiatore e regista del gruppo a insistere con il Kabuki. Lo scontro generazionale sembra rivoltarsi e mostrarsi privo di linearità logica, come d'altronde si presenta anche l’intreccio narrativo.

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Negli anni sessanta diversi sono i titoli da ricordare. In “Porci e corazzate” (!961) una banda di yakuza organizza un commercio illegale di carne suina da vendere agli americani. Il Giappone si svende agli Stati Uniti e i maiali veri sfuggendo dalle proprie gabbie divoreranno i “porci venduti”. In “Cronache entomologiche del Giappone” (1963) è la donna che guadagna il campo. La protagonista con disincanto sopravvive alle più sgradevoli esperienze di vita, dallo sfruttamento sul lavoro all’incesto, da una maternità “animale” alla prostituzione e al carcere. Questa donna non aspira neanche un momento a poter cambiare la propria situazione ignorando qualsiasi alternativa di riscatto morale. L’utero sopraffatto e contaminato è il Giappone, accondiscendente verso “corpi estranei” alla propria eredità.
Tra le opere visivamente più affascinanti è da menzionare senz’altro “Il profondo desiderio degli dei” (1968). Nell’incontaminata natura di Okinawa i nativi raccontano che l’isola è stata creata dagli dei, mentre un ingegnere preannuncia l’imminente ondata di progresso alla quale è destinata da lì a poco la stessa isola. In un perenne balletto tra realtà e favola si materializzano personaggi mitologici tra cui gli incestuosi fratelli Izanagi e Izanami ai quali si attribuisce la creazione dell’arcipelago giapponese.
Per lo scarso successo ai botteghini di quest’ultimo film, Imamura negli anni settanta si dedica a lavori più prettamente documentaristici. “La storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista” (1970) raccoglie le confessioni di una barista, con un passato da prostituta, improntate sulle sue esperienze vissute dalla fine della guerra agli anni settanta. Nella donna, straordinariamente innocente e spontanea, riemerge un vissuto fatto di degrado e di subordine nei confronti di chi pagandola magari per una notte “ripaga” lei o il Giappone in ginocchio.
Già precedentemente Imamura si era confrontato con il documentario. “Evaporazione dell’uomo” (1967) rappresenta la sfida lanciata dall’autore alla finzione cinematografica. Un operatore si mette alla ricerca di un uomo scomparso e tenta con l’aiuto di chi lo ha conosciuto di ricostruire un profilo caratteriale della persona. Quando poi la fidanzata dello scomparso comincia ad innamorarsi della telecamera e tutti gli altri lentamente smarriscono presunti interessi verso l’uomo evaporato, ecco che il cinema in ebollizione rompe gli argini e le pareti del set che vanno giù svelano finalmente la macchina organizzatrice.
Negli anni ottanta Imamura propone storie ambientate nel passato. “La ballata di Narayama” (1983, Palma d’Oro) è la ricostruzione di un’usanza antica (non si sa quanto leggendaria) di lasciar morire sul monte gli anziani del villaggio, quando non più in grado di lavorare. Alle leggi di questo mondo non si può disubbidire e ciascuno al suo interno ricopre il ruolo che gli è stato assegnato da qualcosa di più grande ed indefinito.
In “Pioggia nera” (1989) il bianco e nero fa da sfondo alla tragedia della doppia esplosione atomica. Privo di pietismi, il film documenta i terribili anni a seguire in cui domina la paura della contaminazione, la discriminazione verso i meno fortunati, la perdita della ragione.
L’altro film premiato a Cannes è “L’anguilla” (1997). Dopo otto anni di galera un uomo, che aveva assassinato la moglie adultera, tenta di ricostruirsi una vita lavorando come barbiere nel villaggio. L’unica sua compagna di vita è un’anguilla fino a quando il protagonista non conosce una donna salvandola dal suicidio. Nel film ritorna prepotentemente l’immagine dell’uomo mosso solo da qualche disumana idea fissa fino al fatale incontro. La dimensione grottesca trova terreno fertile in particolar modo nelle ultime storie del regista che si arricchiscono di personaggi sopra le righe, e di comica follia.
È del 2001 il lavoro più recente del maestro giapponese: “Acqua tiepida sotto un ponte rosso”. Un uomo viene licenziato dalla sua azienda è sta per essere lasciato anche dalla moglie. Preso dallo sconforto si ricorda di aver ricevuto qualche giorno prima da un barbone filosofo una specie di mappa con sopra indicato un posto dove si nasconderebbe un tesoro. Il protagonista recatosi sul luogo, conosce una donna che abita in una casa vicino ad un ponte rosso. Tra i due nasce un rapporto strano: la donna in massima eccitazione sessuale riempie il ventre d’acqua e solo un agognato amplesso può svuotarlo inondando completamente il capitato.
Sarà questo il tesoro di cui parlava il barbone? Fare l’amore su di un canotto e godere allo scroscio delle acque non è puro inno alla gioia?

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