Il silenzio sul mare: Marco Ferreri
Il deserto della vita contemporanea e la ricerca di una speranza. Un profilo del regista di "Dillinger è morto" e "La grande abbuffata", scomparso il 9 maggio 1997
Perché la generazione è,
per quanto è dato ai mortali,
cosa sempiterna e immortale
(da Platone "Simposio")
A dieci anni dalla morte si riparla di Marco Ferreri, uno tra gli autori più originali e coraggiosi del cinema italiano (che fu), ma anche uno dei più dimenticati. Sconosciuto ai giovanissimi, guardato a distanza dagli altri. Temuto, rispettato forse, ma amato raramente. E probabilmente non c'è nulla di strano. Già in vita Ferreri ha dovuto fare i conti con le censure e la miopia di produttori e distributori. Non c'è, perciò, da meravigliarsi se sia stato messo da parte dall'"industria culturale", rimandato a tempi più propizi. Anzi, diciamocelo una buona volta: Ferreri se l'è meritato! Perché non ci si può permettere impunemente di "giocare" sulle malattie di una società, del nostro mondo. Il prezzo da pagare è l'ostracismo. Le eccezioni alla regola non sono ammesse, vengono annullate, taciute o inglobate nelle maglie asfissianti di una regola ancor più grande, totale. Nessuna pietà per i non riconciliati, per niente facili. E Ferreri, sin dai suoi primi film in terra spagnola, ha sempre rivolto il suo sguardo scomodo, disincantato, all'avida meschinità e l'ipocrisia strisciante dei suoi (per meglio dire nostri) personaggi, minando alle basi qualsiasi istituto o istituzione a fondamento del sistema, Stato, famiglia (El cochecito, 1960, Marcia nuziale, 1965), Chiesa (lo splendido L'udienza, 1971). Ma non si tratta di moralismo. Il cinema di Ferreri non dispensa certezze o giudizi morali, si posiziona nelle zone di confine, volutamente ambigue. Si confondono ben presto vittime e carnefici, opportunismo e sincerità, mostruosità e normalità. Basti pensare solo a L'ape regina: una storia moderna (1963) e a La donna scimmia (1963). Ma, soprattutto, Ferreri non può limitarsi alla critica sociale. Nell'eccezionale L'uomo dei 5 palloni (frammento di Oggi, domani, dopodomani del 1965, poi finalmente distribuito nella sua lunghezza originale con il titolo Break up – L'uomo dei palloni) si ha la percezione esatta che ormai qualcosa nell'uomo non va più.
Dillinger è morto e occorre spiegare il vuoto di senso in cui si è piombati. Nell'attimo stesso in cui inizia a interrogarsi sulle dinamiche della vita contemporanea, il cinema di Ferreri si fa naturalmente "politico". Il fulcro dell'attenzione si sposta sui rapporti uomo-donna, sull'"utopia" della coppia e dell'amore, sull'invincibile solitudine degli esseri umani, su una condizione esistenziale ormai condannata al fallimento. Dallo sguardo beffardo degli esordi si arriva alla metafora, alla storia esemplare, alla parabola. Qua e là si avverte ancora quell'umore acre e impietoso (Non toccare la donna bianca, 1974), ma si comprende che non c'è più limite alla disperazione e all'autodistruzione. I racconti perdono le connessioni logiche e procedono per accumulo di situazioni, di azioni che sembrano smarrire qualsiasi finalità. L'impressione è quella di trovarsi in una terra di nessuno, di vedere le agonie e le polluzioni dei personaggi come in una sorta di palla di vetro. Un predomino degli ambienti, spazi ermeticamente chiusi all'esterno, in un universo apparentemente asettico, ma ugualmente contaminato. La villa in piena città de La grande abbuffata (1973) è un rifugio impermeabile in cui si consuma l'ultima cena e si autodistrugge la nostra società, una festa dei morti, in cui gli unici estranei a poter accedere sono le donne (chiamate non a caso a perpetuare la specie). I film di Ferreri sono spesso ambientati in grandi città, se non addirittura metropoli: Parigi, Milano, New York, Roma. Ma il regista ne filma le periferie, i grandi spazi vuoti, i margini silenziosi, da domenica pomeriggio. Avamposti di un implacabile deserto. Così in Non toccate la donna bianca lo sventramento delle Halles diviene il richiamo perfetto, genialoide, agli spazi del western. L'epopea si trasferisce in città, la si chiude in un confine e se ne smaschera
Spiagge…non a caso. Perché quasi tutti i film di Ferreri finiscono in riva al mare, un tratto di costa oltre il quale si apre il mistero o
Mastroianni su Marco Ferreri