Marilyn Monroe, il corpo del Mito

5 agosto 1962 – 5 agosto 2002: qual è il rapporto tra percezione memoriale del simbolo e sua riproposta in una sorta di "fuori tempo massimo" del ricordo? Marilyn ha rappresentato un sogno, perché era Sogno, re-inventando dal nulla delle figure sociali assolutamente cinematografiche. Dunque irreali, astratte, cerebrali. Un po' come i sogni, appunto

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L'anniversario della morte della Monroe cade nei giorni caldi d'agosto, nel periodo deputato alla vacanza, allo svago, al divertimento. L'occasione però è di quelle da non perdere. Riflettere su Marilyn facendo tabula rasa di tutto ciò che è già stato scritto, proiettando il nostro occhio al di là della fitta coltre immaginativa che il personaggio ha prodotto nel corso di questi ultimi decenni. Bello da scrivere, senza dubbio, un po' meno da pensare. Qual è il rapporto tra percezione memoriale del simbolo e sua riproposta in una sorta di fuori tempo massimo del ricordo? Non lo sappiamo con sicurezza, potremmo tentare un'approssimazione, ma non ce la sentiamo. E non per spirito di rinuncia, ma per la dolente consapevolezza che, volenti e nolenti, riattualizzare un discorso apparentemente chiuso, rappresenta già di per sé uno scacco. La storia dei corpi si può scrivere, si può riscrivere, si può immaginare. Farlo partendo da presupposti base è sempre un bel rischio. I tanti occhi che nel corso degli anni si sono posati sull'immagine iconizzata di Marilyn sono i tanti sguardi del desiderio che hanno prodotto visibilità, entusiasmo, mito. Partire da questo dato (un dato chiuso e mortifero perché appunto già dato, dunque mangiato e assimilato), significherebbe scartare di almeno due livelli di percezione. Diciamo francamente che non ci interessa. Preferiremmo allora partire da un corpo, da una fisicità nuda e sola, in procinto di entrare nella grande catena di montaggio di Hollywood. In procinto di eternizzare nel giro di pochi attimi il fascino melanconico di una presenza negata. Cerchiamo dunque di capire il perché.

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Marilyn nasce nei dintorni di L.A il 1 giugno del 1926. Il padre le muore presto in un incidente mai chiarito, la madre è un'alcolizzata che la maltratta, accelerando il processo di crescita di una bambina che non è mai stata tale. Primo cenno biografico da non sottovalutare questo. Marilyn come scarto familiare di un ambiente degradato ed immagine del vizio e dell'irresponsabilità. Gran parte dell'America non può non riconoscersi nel ritratto di un'adolescente che passa come se niente fosse dall'inferno familiare, al purgatorio rabbioso e disperato dei tanti centri d'accoglienza per minori. L'infanzia non c'è mai stata, l'adolescenza è un'ipotesi da verificare, l'età adulta una promessa da mantenere. Così è infatti. La giovane Mortenson (questo il suo vero cognome) cerca di sfuggire alle strettoie senza uscita della sconfitta, cerca di re-inventarsi un'idea, un'immagine, con cui identificarsi ed essere identificata. E' la volta dunque dei primi servizi fotografici pagati con due soldi, un lasciapassare nel mondo dello spettacolo che la Monroe non rinnegherà mai. Ecco allora il ritratto della "lolita" ormai cresciuta in cerca di successo. Disprezziamo tale formula, ma le cose stanno così. Semmai ci sarebbe da discutere parecchio sul fantasma inquieto che si agita alle spalle della procace ragazza: quello di un dis-equilibrio permanente. Manteniamo allora la premessa fatta all'inizio: il corpo di Marilyn. Vagante in cerca di un approdo stabile, desideroso di essere messo alla prova nell'eccitante duello della recitazione. Ecco allora l'Actor's Studio, le innumerevoli prove col demiurgo Strasberg, le prime parti importanti (da non dimenticare il suo esordio a teatro con "Anna Christie". Poi il cinema. Prima con delle particine in filmetti da quattro soldi, poi l'ingresso trionfale nel cinema adulto con John Huston e il suo Giungla d'asfalto. Marilyn appare poco, ma è un poco che basta. Un pigiama che la copre per intero, il fare aggressivo della pupa del boss, la presenza/assenza che però si fa notare. Fermiamoci un attimo allora. Elencare tutte le sue opere, ci pare  a questo punto inutile. Anche perché si corre il rischio di uscire fuori strada rispetto al tracciato che ci siamo ripromessi di rispettare inizialmente. Al tempo stesso però, ci piacerebbe sbilanciarci un altro po' e dire che Marilyn ha rappresentato un sogno, perché era Sogno. Cosa significa? Ma semplicemente che nel corso della sua breve carriera ha mitizzato l'assetto compositivo della vecchia Hollywood re-inventando dal nulla delle figure sociali assolutamente cinematografiche. Dunque irreali, astratte, cerebrali. Un po' come i sogni appunto.

 

Ed ecco allora i tre film, i tre sogni emblematici da lei personificati: Quando la moglie è in vacanza (1955) di Billy Wilder, Niagara (1953) di Henry Hathaway, Gli spostati (1961) di John Huston. La scelta potrà sembrare pure arbitraria e discutibile, ma ci pare assolutamente sensata. I tre film citati sono tre diverse Marilyn. Tre diverse immagini di una stessa, folle, medaglia. Il film di Wilder rappresenta una sorta di lento desiderio al lavoro, uno sguardo in lotta con se stesso per cercare di uscire fuori dalla trappola della reciprocità erotica del contatto. Il protagonista cerca di non vedere, ma non ce la fa, è più forte di lui. Marilyn è la vicina di casa, è il desiderio scoppiato in flagranza ossessiva di colpa. Non è reale, ma nemmeno immaginaria. Abita lo spazio della distanza, se ne impadronisce vestendo gli abiti della provocazione e producendo una dilatazione progressiva dello stesso visibile. Ma non c'è alzarsi di gonna che tenga (la celeberrima sequenza del film), o evidenza distruttiva della slapstick wilderiana. Il protagonista è un folle, un cieco, un masochista. Insegue l'immagine di una donna che non esiste, perché stanco forse del linguaggio ordinario della famiglia. Le fantasmagorie erotiche non hanno età, nomi, condizionamenti. Wilder ne filma la venuta alla luce sotto forma di ossessioni terminali, travestite da girotondo inebriante di comicità. Veniamo a Niagara. Si parla di tradimento, di morte, di colpa. I temi, guarda caso, sono molto simili a quelli del film precedente, eppure assolutamente mutati rispetto a quello. Marilyn vorrebbe uccidere il marito, per poi spassarsela con l'amante, fin quando i conti però non tornano più. Il sottobosco noir che campeggia nella vicenda è Lei, figura centrale ed enigmatica, lontana e misteriosa. Nessuno riconosce negli spigoli del suo personaggio il sogno tutte curve che di lì a poco farà innamorare l'America. Ma è un cambiamento necessario, per certi versi inevitabile. I suoi abiti folgoranti denotano ambizione, avidità, peccato. Lo sbilanciamento in avanti produce in questo modo una perfetta aderenza tra l'immagine che sarà (il film di Wilder venne due anni dopo) e quella che è. Ne Gli spostati ci avviciniamo al punto di non ritorno del personaggio Marilyn. Un'opera travagliata, in perfetta controtendenza rispetto allo splendore policromatico delle opere degli anni '50. Non si tratta più di analizzare la creazione del mito, ma il disfacimento di quest'ultimo nelle secche di un malinconia di fondo che non lascia superstiti. Clark Gable, attempato cowboy che cattura cavalli selvaggi per una fabbrica di mangimi, si innamora perdutamente del personaggio interpretato dalla Monroe, arrivando a rinunciare a tutto per lei. Ma non è una storia d'amore vissuta in tempo reale. E' un rincorrersi di fantasmi alle prese con una sparizione lenta e progressiva. L'innamorato Gable è l'altra faccia dell'Ewell protagonista di Quando la moglie è in vacanza. Se là si guardava/desiderava per continuare a vivere (sia pur nel dorato mondo del sogno), qui si persegue la simbiosi tra esseri accomunati da un destino di morte. Il corpo di Marilyn non è più in grado di innescare inconfessabili pruriti erotici, ma soltanto disperate invocazioni di perdita. Il bianco e nero non è casuale. E' oscuramento della lucentezza costruita negli anni, è presagio nefasto di prossima fine. Ma è soprattutto volontà ostinata di fuggire da sogni prefabbricati, incapaci di reggere la distanza.

 

Subito dopo la morte dell'attrice, Andy Warhol afferrò pienamente il senso della sua presenza assente, immortalandola in innumerevoli ritratti (tra  i quali il famoso" Turquoise Marilyn") che la ponevano in quell'alveo fantastico/artistico in cui la sua sensuale ingenuità viveva due, tre, infinite volte, all'insegna della ripetizione, dell'omologazione, dell'uguaglianza.


Torniamo a noi. 5 agosto 1962/ 5 agosto 2002. Non è un gioco warholiano, non è una cifratura nostalgica da decifrare. E' semplicemente l'età senza età del Mito che quarant'anni fa scomparve lasciandosi dietro le lacrime di un Paese sentitosi improvvisamente senza un frammento importante della propria Storia culturale.


Di un corpo infranto contro le barriere di un'innocenza persa per sempre.

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