Antonio Margheriti, il cecchino post-romantico

E' morto a 72 anni a Roma Antonio Margheriti. Nessun manuale di cinema parla però di lui, uno di quei fantasmi eccellenti con cui i conti non sono mai stati fatti. Faceva paura forse Margheriti, per l'idea di cinema che usciva fuori dalle sue opere. Se la Storia la scrivono i vincitori, beh, questo vale anche per il cinema.

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Prima di accostarvi alla lettura dell'opera di Margheriti, c'è una cosa che andrebbe fatta: prendere un bel manuale di storia del cinema, sfogliarlo bene bene un'ultima volta, e poi darlo alle fiamme. Quando la critica si istituzionalizza, serializzandosi nell'ordine politico del già scritto, non c'è più parola sacra che tenga, non c'è soprattutto più materia di riflessione che valga la pena analizzare. Nessun manuale che si rispetti parla di Antonio Margheriti, uno di quei fantasmi eccellenti con cui i conti non sono mai stati fatti. Faceva paura forse Margheriti, ma non per il suo cinema, ma per l'idea di cinema che usciva fuori dalle sue opere. E' morto l'altroieri a settantadue anni a Roma, dove era nato nel settembre del 1930. Aveva incominciato presto ad occuparsi di cinema, ma non subito come regista. Prima tecnico del suono (a lui si devono le deflagrazioni malinconiche di Giù la testa), poi aiuto regista, infine il salto vero e proprio nella regia. Come si può raccontare la  storia del rimosso, del mai accettato, dell'invisibile? Se la Storia la scrivono i vincitori, beh, vale anche per il cinema. Non si è mai posto il problema di un pubblico Margheriti, non ha mai cercato di produrre un prodotto medio buono per tutti. Non sarebbe stato lui, non sarebbe stato il cecchino post-romantico di tutto quel cinema asservito al potere che c'era in Italia a cavallo tra gli anni '60 e '70. Non si è mai posto il problema di essere inquadrato in un qualche schieramento, e soprattutto non ha mai cavalcato l'onda lunga della terribile commedia all'italiana, del cinema risolto in fase di sceneggiatura, dello sguardo atrofizzato del "castigat mores ridendo". Non c'erano per Margheriti mores da criticare, ma c'era però molto da ridere, da soffrire, da divertirsi. Il cinema non dimostra nulla, lo sguardo va liberato dalle pastoie burocratiche/servili che lo assoggettano a domini oscuri e impronunciabili. Ecco allora il suo primo film importante Space men (1960), odissea nello spazio ante litteram kubrickiana, in cui si ripercorre (anticipandola) la storia di un genere e in cui tutta la sperequazione degli anni '70 è già contenuta, in una forma filmica volta all'evasione, inscritta su una precarietà disarmante in cui non si fa cinema, ma il sogno di esso, in un'astronave/desiderio che contiene riflessioni impensabili sull'uomo, sul destino, sulla morte. Fino ad arrivare alla morte del computer di bordo a cui non può non aver pensato Kubrick qualche anno più tardi, risolvendo l'idea margheritiana in un tripudio filosofico ed emozionale di un cinema iper-costruito.

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Ecco, Margheriti non ha mai avuto la tentazione di dirsi autore di un cinema dalle forme chiare, nette, geometriche. Soprattutto preparate. Mandando in moviola questo Space man, si mostra alla visione in un certo modo, per poi essere ri-sbobinato e dirci/parlarci un'altra lingua, un diverso idioma, mostrandoci un altro film. Il cinema di Margheriti è questa giravolta sul vuoto, è un atto di fede nelle possibilità del mezzo, ma soprattutto nell'immaginazione dello spettatore. Bisogna colmarli i suoi film, immaginando che le cose siano andate in un certo modo, quando poi magari è vero il contrario. Nel Pianeta degli uomini spenti (1961) si arriva addirittura alla pre-visione della fine del mondo, in una cornice astratta, surreale, metafisica, in cui è racchiudere il segreto delle memoria in-movimento nella camera oscura del desiderio che scorre sul nastro di un'artigianalità povera e sublime, capace di fare i conti con un ordine di senso impensabile per l'epoca, lontano mille miglia in avanti persino rispetto al nostro cinema di oggi. Poi il capolavoro, il suo film forse più lodato e conosciuto, quella Danza macabra (1964) che si staglia nelle vette del nostro cinema gotico con l'eleganza e la genuinità dei capolavori, con quella atmosfera di profondo disagio simile a quello del protagonista dell'opera che si ritrova a passare la notte del primo novembre in un castello infestato da fantasmi desiderosi del suo corpo, della sua carne, del suo sangue. Una scommessa (fu girato in una settimana), una vertigine cromatica in bianco e nero che punta tutto sulla decadenza della carne, sulla navigazione incerta sul terreno dell'eros rivestendo la questione con un livello di sensualità della messinscena che mette i brividi  ancora oggi. Le autorità democristiane dell'epoca avranno ululato di fronte a quel profondo senso di carnalità messo in atto da Margheriti, ma tant'è, non stiamo parlando di un cinema confortante, né tantomeno consolatorio. Ne i Diafanoidi vengono da Marte (1965), altro esempio incredibile di cinema che parafrasa il modello addirittura precorrendo i tempi, siamo al primo capitolo di una tetralogia conosciuta con il nome di "Gamma 1". Con Io ti amo (1968) siamo al delirio puro. Un pittore che ama un hostess, l'impossibilità di fotografarla perché la donna non resta impressionata su pellicola. Si tratta di una delle opere più assurde degli anni '60, un pastiche indiavolato di umori che vanno dal melodramma impazzito, all'horror, per poi capitolare nella rappresentazione dell'infilmabile, di quello che generalmente viene buttato in sede di montaggio. Divagazioni che non c'entrano nulla, episodi secondari che non vanno da nessuna parte, e soprattutto tanta voglia di girare, cercando di aggirare i pericoli della censura e provando a raccontare qualcosa di un Italia (cinematografica) che stava cambiando. Arriviamo poi a Contronatura (1969), apologo cinico e disperato sulla corruzione del potere, immerso in una cornice primaria in cui torna Danza macabra, almeno per il grado di anarchia percettiva presente nello sguardo del regista. Non gioca con il genere Margheriti, si tratterebbe di una pratica buona oggi per gli studentelli svogliati del Sundance, ma fa genere, quello ruspante, quello che non si vergogna di mischiare il figurativismo pop di quegli anni, con insospettabili tracce di morbosità psichedelica riunite in una sequenza dell'opera in un mare di fango che porta via ogni cosa.


Il cinema è materia, a volte anche della più vischiosa, Margheriti tenta di rintracciare in questo surplus organico dei segni ancora tangibili di presenza umana. La stessa che si tenta di recuperare ne La stretta morsa del ragno (1971), sublime remake/ fotocopia/ riproduzione/ imitazione del vecchio Danza macabra, ed opera in cui il regista filma i luoghi del proprio cinema più teorico, meravigliosamente impassibile ed ingenuo in sede di ripresa, eppure affascinante, immerso com'è in un contorno atmosferico di proporzioni concettuali notevoli. Il film si fa, si rifà, si strafà: la pratica dell'overlooking, del guardare al di sopra, giocando con la materia finzionale nasce da qui, e con esso la voglia di inserirsi all'interno della moda del periodo, lavorando ai fianchi l'omologazione, restituendosi parte di un progetto che non può esaurirsi soltanto nel mercato dello scambio. Indimenticabile a questo proposito il fuori- tempo- massimo de La parola di un fuorilegge… è legge (1974), in cui Margheriti rincorre il fantasma del western, mettendo in atto una caccia all'uomo in cui il set chiuso del suo cinema (l'astronave, la casa infestata dagli spiriti) si apre improvvisamente a nuove frontiere, ri-elaborando un'idea di cinema popolare che ripesca indietro nella storia, escogitando nuove illuminazioni prospettiche in cui sembra quasi parafrasare il cinema americano classico (quello di Ford, per intenderci) andando a pescare nel futuro gli spazi sterminati di Cimino.


Non c'è tempo nel cinema di Margheriti, si continua girare attendendo la rottura di ogni convenzione temporale che si rispetti. Ecco allora Apocalypse domani (1980) in cui il modello è lo Zombi di Romero, ma in cui si va addirittura oltre nel disegno di un ex combattente del Vietnam colpito da un virus che rende cannibali, invischiato in una rete fitta di deviazioni impossibili, detour inaspettati che riconfigurano l'idea di suspance (l'atmosfera è incerta tra l'onirico e il realistico e l'ossessione del contagio è un'ansia che nasce dall'interno del corpo per poi esplodere nell'esterno) con una tirata visiva imperdibile, di violenza, di sangue, di sesso, senza che vi sia mai alcun indugio nel premere l'acceleratore della durata. Si parlava di tempo e in fondo il cinema del regista romano si presta bene ad una sorta di sguardo- in- assenza- di temporalità, una traiettoria nervosa che cancella ogni appiglio al già- visto, al già- immaginato, perché quando Margheriti gira, lo fa ri-costruendo lo sguardo di volta in volta, come nei suoi ultimi film avventurosi (La leggenda del rubino malese, Indio) in cui si avverte la voglia di continuare fare cinema anche se i tempi stavano cambiando, il genere stava scomparendo, e improvvisamente tutti cominciarono a giocare  al gioco dell'autore a tutti i costi. Già, Autore. Margheriti non si è mai definito tale, eppure insieme a Bava, Cottafavi, Di Leo e pochi altri, ci ha lasciato in eredità uno sguardo profondamente dissidente, libero, irriconciliato. Consapevole che i conti con il cinema si fanno sempre all'ultimo. Attraverso il Tempo.

 

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