Michael Powell e Emeric Pressburger: la modernità del segno

Il cinema di Powell e Pressburger compie costantemente lo sforzo di posarsi con il suo sguardo dentro e fuori il mondo tormentato dei personaggi. Cinema modernissimo visivamente a cui spesso hanno fatto riferimento molti cineasti. Tra i più devoti, Martin Scorsese

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Michael Powell, il regista di Narciso Nero, Scarpette rosse, Duello a Berlino e L'occhio che uccide,  va posto senza timori di smentite nel novero dei grandi autori visionari. Powell è il cineasta anticipatore di inquietudini e situazioni filmiche da riscoprire in virtù dell'insegnamento che ha lasciato grazie all'influenza sull'opera di registi come Scorsese, Coppola, ma anche per via dell'oltranzismo sperimentale di un percorso filmico originalissimo, per quanto amato spesso dal grande pubblico e non sempre dalla critica. La sua influenza sul cinema coevo è stata intensa per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, ma la riscoperta del suo lavoro diviene oltremodo evidente durante la metà degli anni Settanta, quando Martin Scorsese riesce nel meritorio compito di fare uscire in una nuova edizione il capolavoro bistrattato L'occhio che uccide, e i nuovi tempi si dimostrano pronti per accogliere l'opera perturbante di un cineasta da sempre anticipatore. Non a caso, sul finire degli anni Settanta, Derek Jarman porterà sullo schermo un adattamento di The tempest, testo di cui Michael Powell preparava da tempo una personale versione cinematografica. Assieme allo sceneggiatore di origini ungheresi Emeric Pressburger, Michael Powell è il regista degli oltre quindici film che portano il cinema britannico degli Archers (il nome della compagnia da loro fondata) ai livelli di una insperata artisticità, laddove il fiuto commerciale della coppia non rinnega mai la vocazione affabulatoria e personalissima della messinscena. Quello di Powell e Pressburger è un lavoro incessante sull'ambiguità della visione. Il loro sforzo espressivo si caratterizza per la volontà di rendere sinistramente "magica" la rappresentazione, restituendo alla macchina da presa il compito di scandagliare l'animo umano al seguito di una sintassi filmica incandescente di cui avrebbe fatto tesoro il cinema di Martin Scorsese. Oggi, rivedendo i film più autenticamente divorati dal dubbio del regista di Taxi driver, è facile percepire una influenza contenutistica proveniente dai film di Powell. Un film come Lezioni di vero (episodio di New York Stories), in cui il pittore Nick Nolte si esalta in un delirio di onnipotenza dinanzi alla sua allieva Rosanna Archette, è forse il più sentito omaggio a Scarpette rosse, modello di magnetismo affabulatorio con cui Powell e Pressburger rileggevano la favola di Andersen mantenendosi a distanza dai toni psicanalitici eppure alludendo di continuo alla follia cui conduce il lavoro artistico, in un esaltante ritratto dell'impresario Lermontov mantenuto sui toni di una distanza programmatica che infonde al racconto quel sapore di fascinazione e disincanto propria del miglior cinema di Powell.

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La critica avrebbe riconosciuto a Powell di provare compassione per i suoi personaggi divorati dal sacro fuoco della passione in un mondo di convenzioni. In realtà, con Powell e Pressburger la novellistica britannica fa il salto nella dimensione "alta" che connota il cinema d'autore europeo (ma non soltanto) degli anni a venire. Forse in Narciso nero di Powell e Pressburger, film del 1947, c'è già qualcosa del futuro Antonioni architetto della visione, per l'impennate stilistiche che fanno parlare di modernità in un contesto scenografico sospeso tra passato e presente. Powell e Pressburger, pur restando dei nomi di punta della convenzione cinematografica degli anni quaranta e cinquanta, un po' come Alfred Hitchcock, continuano a lavorare per tutto il periodo su un'ipotesi di cinema che rivendica il primato dell'immaginario quale forma del possibile: tutti i personaggi dei loro film ridisegnano il mondo con gli occhi di un delirio onnipotente, ma si tratta delle potenzialità dell'animo umano al cospetto di uno scenario malato di indifferenza o alienazione. Sempre, in Powell e Pressburger, l'aspetto tematico e quello linguistico appaiono strettamente compenetrati, così che diviene impossibile discutere di una singola sequenza senza tirare in causa la dimensione più ampia e rappresentativa che coinvolge i differenti livelli del film. Anche questo è un tratto che ritroveremo in Scorsese, dove ogni sequenza di Taxi driver, o di L'età dell'innocenza, ci parla del travaglio di personaggi soli, individui che hanno bisogno di librarsi nel terreno tormentoso della loro immaginazione, perché il loro regno "non è di questo mondo". Fatta salva la disturbante vocazione messianica e cristologica dei personaggi scorsesiani, destinati ad annullarsi in uno spaesante masochismo, i personaggi di Powell e Pressburger, talora tratteggiati più che definiti, sono, proprio come quelli di Scorsese, incapaci di scendere a patti con il mondo che li circonda. Suor Clodagh (Narciso nero), una volta raggiunto il monastero dove l'attende un mondo nuovo, vedrà vacillare le sue convizioni e non saprà contenere le isterie delle sorelle, come lei incapaci di scendere a patti con le richieste di una popolazione che vanta le sue tradizioni. La scelta di suor Clodagh, che si fece suora per fuggire ad una delusione amorosa, sembra essere la negazione dell'esistente, a favore di una promessa di autoreclusione che non la porterà di certo le ricompense promesse. "Narciso nero" è così soprattutto una baluginante riflessione sul tormento dell'ubbidienza e l'estasi del ricordo, temi e suggestioni che ritroveremo nello scorsesiano L'età dell'innocenza. Il mondo di Lermontov, l'impresario teatrale di Scarpette rosse, è un luogo altro colorato dei sogni di un'esistenza che trova una sublime ricompensa soltanto nella dimensione del meraviglioso scenografico. Lermontov non può vivere che per il proprio lavoro. La sua passione per la ballerina Victoria Page sopravvive soltanto se si mantiene viva anche la loro comune partecipazione ai progetti artistici con cui calcano i palcoscenici internazionali. Lermontov è un altro personaggio solo, incapace d'amore forse perché lui stesso non ne ha avuto, che ha bisogno di sentirsi un dio in terra attraverso la consacrazione artistica. La dialettica arte e vita si ingarbuglia ancor di più attraverso un film, Scarpette rosse, la cui fascinazione "magica" e "infantile" si mette al servizio di uno sforzo stilistico che contamina reale e immaginario, dove il senso più profondo sembra risiedere nella rivendicazione dell'immaginario quale territorio privilegiato per comprendere (anche attraverso un film) la mitologia che popola l'animo umano determinandone in buona misura il destino. Il cinema di Powell e Pressburger compie lo sforzo modernissimo di posarsi con il suo sguardo dentro e fuori il mondo tormentato dei personaggi. A livello stilistico questo tentativo si traduce nella qualità al contempo immaginifica e obbiettivante di un percorso che raggiunge il culmine di autosignificazione con L'occhio che uccide (1960), modello di metalinguaggio, esempio clamoroso di come la critica può sbagliare (all'epoca della sua uscita il film venne accolto con sgomento), ma altresì indagine dentro lo sguardo di un protagonista circondato di sole immagini in cerca di un filo di senso nello smarrirsi di una cultura senza appigli certi. Le riprese di volti di donna colmi d'angoscia che il cinereporter Mark Lewis effettua quando commette i suoi delitti, sono la rappresentazione più fredda, "freudiana" e lucida, di come il cinema possa scendere in campo per mostrare il lato nascosto, "irrappresentabile" e più vero di un reale còlto attraverso il sentire più intenso. Il tentativo disperato di sopravvivere all'anonimato delle immagini si traduce in un bisogno di educare chi osserva a guardare in faccia il reale (e persino la propria morte).

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