Alberto Sordi, la nostra continua autobiografia

Alberto Sordi in Il vigile

A dieci anni dalla morte Alberto Sordi ci manca. Pur consapevoli che avremmo voluto un’altra storia da raccontare, in fondo lui ha raccontato la nostra, quella reale, accompagnandoci dentro un’Italia in mutamento con invidiabile lungimiranza e il piglio di un attore che aveva innato il senso dello spettacolo. 

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… rossi e neri sono tutti uguali, ma che siamo in un film di Alberto Sordi?….bravo… bravo.. te lo meriti Alberto Sordi!

Nanni Moretti – Ecce bombo (1978)

 

Se fosse stato scelto Tognazzi, invece che Sordi, a rappresentare l’italiano medio, chissà forse oggi saremmo un paese migliore…..

Federico Chiacchiari – www.sentieriselvaggi.it

 

Ho preferito fare il teatro di rivista e non ho mai voluto tentare la prosa perchè non mi sono mai voluto rimettere alle didascalie degli autori, cioè io avevo uno spirito di esibizionista, è da che ero piccolo che volevo esibirmi.

Alberto Sordi

 

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Alberto SordiIn un ormai decennale articolo, Federico Chiacchiari su queste stesse colonne auspicava la rilettura della storia d’Italia, del suo costume utile a tracciare un profilo dell’italiano medio, anziché attraverso i personaggi di Alberto Sordi, attraverso i personaggi più dimessi e sofferti interpretati da Ugo Tognazzi.

 

Oggi, a dieci anni dalla morte, dobbiamo confessare che Alberto Sordi ci manca un po’, siamo un po’ orfani di quella ribalderia vigliacca, di quella sbruffoneria popolare, di quella ignoranza ostentata da diventare meschinità. Ci manca un poco perché ci fa ricordare i tempi in cui queste cose accadevano al cinema e gli spettatori uscivano felici di non assomigliarci. Poi le cose sono peggiorate e Paolo Villaggio ci ha portato per mano dentro l’inferno dostoevskiano del piccolo uomo, del minimalismo del travet, dell’incubo quotidiano del disgraziato dolorosamente felice della sua condizione. Quello di Sordi è un italiano medio, quello di Villaggio una condizione universale.

Oggi, al posto dei personaggi di Sordi, basta guardare un po’ la tv per vederteli passare davanti, ribaldi e ignoranti, sbruffoni e meschini.

Da qui la lungimiranza di un attore che aveva innato il senso dello spettacolo, che viveva per l’esibizione.

Radio, televisione, cinema, rivista, mai teatro, voce e corpo, mimica del corpo e vitalità magnetica, sono state le caratteristiche del Sordi che conosciamo, che ha attraversato sessant’anni di cinema italiano, raccontando sempre dell’arte di arrangiarsi, dell’incapacità di essere eroe, della mediocrità che diventa quotidiano eroismo.

Se dovessimo tentare di raccontare la carriera del Sordi attore e regista, elencando i suoi 146 film salvo errori, non basterebbe lo spazio assegnato, ma forse quello che diventa più interessante è il tentativo di cogliere la sincronia del Sordi attore dentro il percorso di un Paese che dalla preparazione alla guerra del 1940 è arrivata fino alla soglia del nuovo millennio.

L’attore era nato a Trastevere il 15 giugno del 1920, dentro il cuore di una Roma che ancora vedeva splendere alto il Alberto Sordiverso satirico e pungente di Trilussa che ha sempre costituito il baricentro imprescindibile della sua comicità, della sua malinconia.  Come non ricordare il commosso omaggio nel finale di Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo di Mauro Bolognini (1956) quando le sue parole …ammazza che magone che c’ho condensano la nostalgia di una Roma lontana dentro una città così estranea e incomprensibile come Milano (… el culega, el sciur culega, el barbun, la galeria, el Motta, el martinitt…el magun).

La carriera di Sordi cominciava nel 1937, era giovanissimo, aveva 17 anni e in Scipione l’Africano di Carmine Gallone era una delle tante comparse nei panni di un soldato. Quell’anno si inaugurava Cinecittà, l’Italia usciva dalla Società delle Nazioni a causa delle sanzioni che le erano state inflitte, Walt Disney avrebbe presentato al pubblico Biancaneve e i sette nani.

Il vigileDa allora la sua carriera è stata un’ascesa continua, un incarnare, via via i caratteri di un italiano che mutava pelle. Non a caso l’acume di Flaiano colpiva nel segno nel descrivere le conseguenze e gli effetti di quel cinema in cui gli attori ci facevano ridere dei loro vizi e difetti, dei loro guai e disastri perché sono tutti i nostri, li riconosciamo … sostenendo che attori come Sordi e Tognazzi sono la nostra vera, continua autobiografia. In questa capacità di assorbire e restituire che si trasforma in carattere universale, in mappatura del comune sentire, va ricercata la ragione che porta a considerare il lavoro di Sordi come unico e irripetibile nell’inesauribile ricerca della comune indole degli italiani.

Dentro un’Italia che si trasformava dal fascismo alla guerra e dalla guerra alla ricostruzione, fino al boom degli anni sessanta e poi alla contestazione degli anni successivi, alla sensibilità politica e al suo tornare dentro l’egoismo di una vita privata impermeabile alle sollecitazioni e quindi al risveglio e ai mutamenti repentini del nuovo millennio, i personaggi di Sordi si sono adattati a tutto questo o meglio è stata la sua sensibilità d’attore sospeso tra il comico e il tragico(mico) a raccontare questa lunga striscia di storia che ci appartiene.

La vigliaccheria e la servile condizione dello scalatore sociale, la bandiera di un moralismo bacchettone e ipocrita, la Alberto Sordi, 1962camaleontica capacità di trasformarsi per ingraziarsi i potenti, la seduzione codarda di chi ha paura di cambiare la propria vita, sono alcuni tra i comuni denominatori dei caratteri umani creati da Sordi dentro la carrellata della sua carriera. Fu la sua giovane e logorroica presenza in Mamma mia che impressione (1951) di Roberto Savarese, ma in effetti diretto da De Sica, che impressionò Fellini che lo volle nella disavventura economica di Lo sceicco bianco (1952), in cui la furfanteria del personaggio equivale solo alla sua solitudine. Lo scarso successo di quel film obbligò Fellini a promettere che non avrebbe inserito il nome di Sordi nel manifesto del nascente I vitelloni (1953). Il film andò benissimo e nella seconda tiratura il suo nome comparve.

La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini e Una vita difficile (1961) di Dino Risi, costituiscono i capisaldi di una filmografia che riscattava il passato per farci scoprire personaggi differenti, che trovavano dentro la paura che detta il coraggio, la forza di un orgoglio inaspettato. L’imboscato Oreste Jacovacci, il sottotenente Innocenzi e, per finire, il giornalista comunista e inflessibile Silvio Magnozzi, personaggio particolarmente caro a Sordi, costituiscono il rovescio di una medaglia per troppo tempo guardata da una sola parte. Saranno stati gli anni ’60 e la consapevolezza di potercela fare dopo la guerra o l’orgoglio che comunque prima o poi viene fuori, ma almeno questi tre personaggi sordiani, capostipiti di una piccola moltitudine che si affolla, ci permettono di riconsiderare la galleria dei suoi personaggi.  Aveva ragione Godard quando nel bel capitolo “italiano” di Histoire(s) du Cinéma afferma che solo l’Italia era riuscita a riscattare attraverso il cinema la vergogna della guerra.

Alberto Sordi_2A dieci anni dalla sua morte e dentro i fatti della cronaca che ci riportano dentro una sua segreta vita privata sempre protetta da un entourage familiare severo, per lui difeso dalle sue sorelle, tornano in mente gli incubi che la sua arte istrionica aveva elaborato dentro i percorsi di una quotidianità solo apparentemente tranquilla in Un borghese piccolo piccolo (1977), ancora di Monicelli, oppure dentro una surreale favola nera in La più bella serata della mia vita (1972) di Ettore Scola o, ancora, dentro la profetica parabola triste di Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy oppure, per finire, dentro quel sogno malato, quell’incubo consapevole di Mafioso (1962) di Alberto Lattuada.

Grandi qualità che hanno fatto di Sordi un pezzo reale della nostra storia e anche del nostro cinema, pur nelle sua cadute da regista, nella malinconia di raccontare la solitudine della vecchiaia dentro la storia triste di un amico cavallo, ma sempre con una specchiata onestà intellettuale, diventando egli stesso il collettore dei mali dell’uomo medio d’Italia, dentro uno spirito indomabile e una irripetibile magnetica potenza d’attore. Per cui forse aveva davvero ragione Nanni Moretti, in fondo Alberto Sordi ce lo siamo meritati davvero.

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