Nicole Kidman, stella calda

nicole kidman
In Stoker di Park Chan-wook è la bambolesca maschera di cera sciolta in un museo arioso quanto cimiteriale. Sacrificabile accessorio di carne nelle mani di mostri dal sangue naturalmente cattivo e giocosamente libero, la Kidman è il dramma reale dentro il dramma rarefatto. Vittima di un sentire dannatamente umano, anche stavolta ribadisce che non sta giocando

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Ipersensibilità dichiarata versus superficialità apparente, il conflitto tra le due figure femminili di Stoker si pone immediatamente come una questione epidermica. Infilando il dito un po’ più a fondo nella piaga silenziosa ma dolente della madre, ci si trova a tastare il confine di un abisso: perché se la giovane India percepisce distintamente le zampette del ragno che le si arrampica sulla gamba, la madre Evelyn è la preda nella tela, vittima di un sentire dannatamente umano che la squalifica agli occhi della figlia onnipotente ma ne acuisce la sincerità disperata. Il primo film made in Usa di Park Chan-wook, in questi giorni nelle nostre sale, mette in scena un complesso di Elettra ribaltato e risolto, dove l’agghiacciante e quieta Mia Wasikowska ha già vinto l’attenzione del padre, da poco scomparso. Relegando la mamma Nicole Kidman, bambolesca maschera di cera sciolta in un museo arioso quanto cimiteriale, nelle sue stanze di esibita vacuità e sotterraneo tormento: impotente, disillusa, indignata e ancora incredula di fronte all’estraneità della sua creatura, cinguetta la sua solitudine allo zio appena arrivato per poi arrendersi alla sua funzione di distrazione, sacrificabile accessorio di carne nelle mani di mostri dal sangue naturalmente cattivo e giocosamente libero. La Kidman, ultima stella capace di accendere bagliori perturbanti senza offuscare la sua luminosità classica, non sta giocando. E’ la carne e il sangue che pulsano sotto la plasticità dello stile.

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Il dramma reale dentro il dramma rarefatto, puntellato di colori pastello e tappezzeria raffinata e orgasmi offerti in perfetta posa. In una carriera più che ventennale, la ragazza di Honolulu ha attraversato i generi lasciandosi attraversare – per sua stessa ammissione, è il tipo d’attrice che reagisce agli stimoli e nulla programma. Imprimendo a sua volta una grintosa presenza, non abdicando mai alla sua disarmante umanità anche quando costretta in un recinto o, al contrario, riflessa e deformata nella stanza degli specchi. Ultimamente l’abbiamo vista stemperare l’aura divistica in personaggi eccessivi e deturpati come la prosaica femme fatale di The Paperboy: urinava sulla faccia di Zac Efron punto dalla medusa e si cimentava in un ridicolo siparietto erotico che restituiva la cifra della sua disperazione. Appunto, perché anche – soprattutto? – in caratteri di tanta pochezza e miseria, vibra la verità di un’interprete attenta e sensibilissima, esposta come poche alle correnti dell’esistenza. Il salto da oggetto del desiderio a soggetto desiderante non conosce gradino: già nel primo film americano, Ore 10: calma piatta, la Kidman muove il timone della barca a vela tenendo in ostaggio (lei, che tecnicamente è l’ostaggio) gli instabili umori di Billy Zane. In Giorni di tuono ribalta addirittura la prospettiva del film, spostandolo dal circuito ovale – la visione rigorosamente orizzontale – della corsa automobilistica alle architetture verticali in cui con matura disinvoltura si muove (e dalla cui altezza dà dell’infantile egomaniaco al futuro compagno Tom Cruise). Ridisegna la pista sulla sua gamba languidamente distesa, dove due bustine di dolcificante simulano un lento, ipnotico sorpasso.

Algida e perfidamente doppiogiochista in Malice. Il sospetto, vivida e scopertamente perfida in Da morire, Hollywood la consacra ponendola nella teca delle “donne dei supereroi”, ma pure in Batman Forever trascende l’eternità del leggendario partner affermandosi come personaggio indelebile, indipendente: la sua Chase Meridian avvolta nel lenzuolo bianco è una visione quasi vampiresca immortalata da un chiaro di luna. Strega istintivamente conturbante anche nelle magie telecomandate, di Amori & Incantesimi è lei il sortilegio: fa da sorella/contraltare alla tipica Sandra Bullock inflessibile come un sergente, sciogliendo belladonna in una bottiglia di whisky e anticipando (trattenuta tra le righe di un copione refrattario alle sfumature) la licenziosa ambiguità della sua Birthday Girl. Prima di insegnare il russo al pavido bancario Ben Chaplin lasciandosi ammanettare al letto, Nicole si fa spogliare dall’occhio (sgranato, impietoso) di Kubrick: in Eyes Wide Shut una sua fantasia, sussurrata con la nitidezza tipica dei sogni che ci braccano anche al mattino, catapulta il marito Cruise in una girandola di eventi reali eppure onirici. Mentre lui entra ed esce dalla maschera, confondendo la verità delle cose per le strade della Grande Mela natalizia e fredda, lei sa perfettamente che l’importante è essere svegli, adesso e il più a lungo possibile.

Miccia di un fuoco che si consuma su se stesso affumicandoci tutti lentamente, la Kidman arde senza il bisogno di mostrarci le acrobazie della fiamma. Baz Luhrmann le fa appiccare un altro incendio: caldo come l’amore fatale, impossibile eppure perfettamente armonizzato in una cassa di risonanza a forma di elefante, rosso come il sipario che separa l’ineluttabilità di un destino atroce dall’infallibilità dello show che deve continuare. Nicole incornicia la sua stella nella star del Moulin Rouge!, uccellino malizioso appollaiato su un trespolo scintillante, quindi impertinente ma romantica material girl nel duetto con il sognatore scrittore squattrinato Ewan McGregor, infine eroina tragica eternata dalla vita che diventa, ineluttabilmente, un romanzo. Until the end of time: il cantato sfuma nel sospiro, nel rantolo della morte, nella consacrazione a diva totale. Interprete di ritratti (non solo) immaginari (The Hours, prima e meglio di Fur) dove la fedeltà alla persona supera la mimesi fisica e si nutre dei demoni privati di grandi donne, Nicole Kidman svilisce il suo corpo tra le strade disegnate col gessetto di Dogville, illuminando un quadro dichiaratamente falso con la grazia che porta nel nome. Non c’è da stupirsi se alla giovane India, in Stoker, auguri tutto il male possibile. “Aspetto soltanto che la vita ti faccia a pezzi”, le sussurra a denti stretti. Ha già cullato le solitudini di altri figli “speciali”, ma in quest’adolescente non può riconoscersi. Con tutta probabilità India Stoker non sarà mai maciullata dalla vita perché le camminerà sempre al fianco senza lasciarsene attraversare. E’ il premio della libertà e la sua maledizione: a differenza della madre, resterà una crisalide impermeabilizzata dal bozzolo. 

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