Katharine Hepburn: un ricordo in immagine

Sono passati esattamente dieci dalla morte di Katharine Hepburn. La Regina di Hollywood, come molti la chiama(va)no. Cinquanta film interpretati, settant’anni di carriera, quattro oscar vinti, una eredità artistica evidentissima… ricordarla oggi significa da un lato osservare il “primo piano” del cinema classico

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Katharine Hepburn Sono passati esattamente dieci dalla morte di Katharine Hepburn. La Regina di Hollywood, come molti la chiama(va)no. Cinquanta film interpretati, settant’anni di carriera, quattro oscar vinti (come nessun’altro attore o attrice), una eredità artistica evidentissima (colleghe come Diane Keaton, Jane Fonda, Nicole Kidman hanno più volte riconosciuto il loro debito). Ricordare oggi Katharine Hepburn è un compito assai difficile. Perché, limitandosi solo alle “parole”, potrebbe risultare uno sforzo fatalmente riduttivo e incompleto per colei che fatto dell’unicità del suo “primo piano” l’intima ragione di grandezza. Il volto/paesaggio di una donna forte e fragile nel contempo, che ha configurato forse come nessun’altra attrice le intime contraddizioni americane. E allora è più opportuno partire proprio da un ricordo in “immagine”, quello di Martin Scorsese in The Aviator, nel suo ritratto serigrafico della Hollywood che fu: l’interpretazione di Cate Blanchett (che gli è valsa l’Oscar nel 2005, destino scontato…) così mimetica e fredda, perpetra un’inscindibile coalescenza tra i segni di tantissimi personaggi interpretati dalla Hepburn e quelli noti sulla sua vita privata. Scorsese ci dice che non c’è e non c’è mai stata linea di confine per Katharine: non c’è vita senza cinema e non c’è cinema senza vita. Quindi non ci può essere ricordo senza immagine.

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Con Cary Grant in SusannaPertanto: sfogliando una moltitudine di monografie, recensioni dell’epoca o ritratti postumi dedicati a Katherine Hepburn, spesso si trova citata l’espressione “presenza scenica” accompagnata da aggettivi rafforzativi come magnetica, potente, inconfondibile. Ecco, in questa comune e un po’ scontata associazione c’è una profonda verità: Katherine Hepburn era veramente un’attrice perennemente e consapevolmente oltre il pro-filmico, oltre i personaggi che interpretava, oltre i registi che la dirigevano. Nel suo volto geometrico e austero, quasi scultoreo nella sua ieraticità, si possono inscrivere/rintracciare tutti i segni del femminile e della femminilità vista (d)a Hollywood: l’oggetto dello sguardo maschile (La gloria del mattino di Lowell Sherman), la donna spericolata e indipendente (La falena d’argento di Dorothy Azner), l’ambiguità sessuale insinuante (Il diavolo è femmina di George Cukor), la vergine di ghiaccio in realtà vogliosa di diventare una principessa (Scandalo a Filadelfia ancora di Cukor o La regina d’Africa di Huston), la moglie devota e comprensiva (Sul lago dorato di Mark Rydell). Katharine Hepburn ha saputo fondere, come pochissime altre attrici, il suo essere donna e pioniera di una femminilità dominante e anticonformista all’immagine di star hollywoodiana apparentemente guidata dallo sguardo maschile. Ha insomma costruito una personale tensione “autoriale” dentro i film che interpretava (cosa di solito appannaggio dei colleghi uomini: Stewart, Grant, Tracy, Fonda, Mitchum, ecc), imponendo lenti ma inesorabili mutamenti nella culla del cinema classico prettamente “maschile”.

Scandalo a PhiladelphiaLa sua recitazione nervosa e prorompente, spesso ironica, per certi versi erede delle prime donne del “palcoscenico” europee, le valse negli anni '30 il rispetto incondizionato di critica e produttori. Ma non ancora del pubblico: famosa la battuta che girava a Hollywood “lei è veleno per i botteghini”. Furono due film a distanza di due anni, a rovesciare questa situazione e a far trovare la giusta sintonia con il pubblico diventando una Star. Il primo è l’immenso Susanna (1938) di Howard Hawks, il prototipo della screwball comedy, un tour de force attoriale in cui si forgiano gli archetipi della bella/ricca/annoiata in cerca di marito e del bello/timido/fedele all’occorrenza intraprendente che modificherà il suo status per incontrare l’amore. E Katharine Hepburn pur rivendicando le proprie prerogative di donna emancipata diventa anche l’ideale femminile intelligente e dolce, che sconquassa la vita del maschio e lo fa innamorare. Un ideale riproposto con ancora maggiore evidenza in quello che è forse il ruolo della vita, Tracy Lord in Scandalo a Filadelfia (1940): una vera e propria parabola intertestuale dove il personaggio Tracy e l’icona Hepburn si fondono nel giudizio di spietata freddezza con cui gli spasimanti Cary Grant e James Stewart la bollano all’inizio del film.


con Spencer TracyTracy/Katharine la “dea vergine” impossibile e bellissima, che giudica dall’alto l’uomo (lo spettatore?) innamorata solo di se stessa e tragicamente lontana dagli altri e dai sentimenti (dal pubblico?).
Il film è letteralmente un percorso di riavvicinamento alla vita e alle emozioni che, guarda caso, finalmente scioglie anche il pubblico: il suo mentore George Cukor le dona la possibilità di imporre ancora la sua innata e algida regalità, sposandola però alla fragilità di una donna che in fondo cova desideri romantici come ogni ragazza americana. Amore della vita che sarà rappresentato da Spencer Tracy conosciuto sul set de La donna del giorno: inizia nel 1942 una leggendaria collaborazione artistica dove le tante facce di un “amore vero” saranno messe in scena per venticinque anni e dieci film, sino al 1967 di Indovina chi viene a cena e la successiva morte di Spencer. Ecco: forse ricordare oggi Katharine Hepburn non significa solo guardare al passato. Significa innanzitutto osservare il “primo piano” del cinema classico, scoprirne a distanza l’incredibile pregnanza socioculturale di quest’arte-di-massa che ha segnato indelebilmente il Novecento. Ma può significare anche riscoprire una pionieristica figura di quel cortocircuito vita-immagine che tanto ci fa riflettere e interrogare oggi. Katharine Hepburn, la regina di Hollywood, sarà sempre un’attrice contemporanea.

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