Charles Bronson, il giustiziere nella notte (del cinema).

Quella di Bronson (morto a Los Angeles all'età di ottantun anni per complicazioni polmonari)è stata una presenza sempre fuori/dentro le regole del cinema americano classico degli anni Sessanta, così come ha rappresentato per i Settanta l'icona di una violenza metropolitana che sarebbe scoppiata poi appieno subito dopo nelle opere di Hill e di Scorsese.

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E' una semplice questione di cuore, una forma di attaccamento, un sussurro di vita. Non può essere profilo (contraddicendo l'incasellamento in cui scriviamo), perché non ne vorrebbe fuori il ritratto sfocato di rughe solcate dal tempo, o magari lo strabuzzare di occhi gentili e ritrosi che hanno attraversato il cinema americano con la leggerezza del corpo sospeso tra cielo e terra, la terra della traversata, il cielo dei grandi spazi che accarezzano orizzonti di fuoco. Diciamo Bronson per dire cinema americano, e magari anche il contrario, visto che si parla di un personaggio che non è mai riuscito ad abitare un solo, identico, set, all'interno di una uguale prospettiva. Andiamo tranquillamente fuori giri, fuori tempo massimo, non ci interessa più di tanto lo scrupolo cronologico, dunque avanti con Lupo solitario (una delle ultime opere interpretate dall'attore) in cui Bronson, padre del protagonista, è l'immagine accartocciata e furente di un Paese che si guarda allo specchio nell'atto di suicidarsi, in quella sublime messa in piega di un pulsione di morte che culmina nell'incipit del grandioso cinema di Penn, quale atto ristoratore, calamita mortale che attrae la celluloide in una verginità fisica senza precedenti. Bronson perde la moglie (leitmotiv peraltro dei suoi attraversamenti filmici del passato), e non può far altro che abitare le stanze dolorose del ricordo sognando una morte volontaria, precisa, accuratamente scelta. E' cinema del dolore, del sacrificio del corpo quello di Penn, così come quello genialmente apolide di Vincent Gallo che chiama Bronson in Buffallo '66, anche qui a vestire i panni di un padre mancante, assente, lontano mille miglia dalla soglia fisica rappresentata dal figlio (lo stesso geniale Gallo), quasi a voler schiacciare la pressante violenza del Bronson che fu in un dedalo dolcemente nostalgico di retrovie andate, di atti assorti, di quadretti familiari narcotizzati a suon di beffarda ironia. E' il Padre allora Bronson, il punto di riferimento per una generazione di giovani registi (Penn, Gallo, per l'appunto) che praticano lo spaesamento e la radicalità del mostrarsi come pochi altri oggi. Bronson ne è figura paterna, spirito inquieto che ne saggia la consistenza, la (possibile) durata, la materia stessa dell'avvicendamento. C'è dell'altro. Un misto di tenerezza, euforia, trasgressione. Niente a che fare con la figura paterna di cui abbiamo appena parlato e, forse, non a caso. Per una generazione di giovani rampolli diseredati dalle famiglie d'origine e cresciuti a pane e spostamenti vari (questa in fondo la storia del cassavetiano Penn e del girovago Vincent "brown bunny" Gallo) Bronson rappresenta un modello, un compagno di strada ante litteram, un corpo da seguire insomma, nel bene e nel male, fuori e dentro il cinema. Ci uniamo al coro di spiriti inquieti e, come in un sabba ritmato dal fuoco lento della ripetizione, ci riappaiono quasi in sogno i perché di un attore appena perso, eppure come ritrovato, dolce presenza vitale capace di accompagnarci per chissà ancora quanto tempo nelle nostre peregrinazioni sui margini selvaggi del cinema/vita. Prima dell'elenco doveroso di opere da citare (non tutte, chiaramente, ma una parte che riteniamo indispensabile per una conoscenza meno marginale dell'attore americano), un qualche cenno biografico.

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Bronson (al secolo Charles Buchinsky) nasce a Ehrenfeld, in Pennsylvania il 3 novembre del 1921. L'inizio non è dei migliori. I genitori infatti, emigrati lituani, non se la passano proprio bene. Il padre lavora in una miniera di carbone, e si trova a dover mantenere ben quindici figli, e Charles è l'unico fra questi a finire gli studi. Combatte poi nella seconda guerra mondiale (presta servizio in aviazione), per poi, una volta tornato in patria, riprendere il corso di studi. Poi, la nascita di una passione, il sogno di una vita, appunto la recitazione. Tempo di entrare in una compagnia teatrale, di recitare in piccole parti, per poi iscriversi alla compagnia della Pasadena Playhouse. Charles è un giovane che sa coniugare una grande volontà e un buon talento, tutte le premesse giuste dunque, che fanno sì che partecipi nei primi anni Cinquanta ad un film del grande Henry Hataway, Il comandante Johnny. Da questo momento in poi, non fa altro che partecipare a tantissime produzioni televisive, in cui il suo nome (ancora Buchinsky) appare sempre legato a ruoli secondari (bandito, indiano, e così via). Non per molto però. Charles "Bronson" (e tutto ciò che da qual momento ne derivò) nasce sul finire degli anni Cinquanta, davanti al Bronson Gate degli Studi Paramount, appunto in Bronson Avenue. Da qui, il nome che segnò una svolta decisiva per la carriera dell'attore. Nel 1958 infatti riesce a spuntarla per il ruolo del fotografo intrepido Mike Kovac nella serie TV Man with a camera di Paul Landres. Riesce tanto bene nel ruolo Charles, che la casa produttrice delle macchine fotografiche usate nella serie lo trasforma in testimonial dei propri prodotti. Da un lato quindi figura quasi rassicurante gettata in pasto alle esigenze di un mercato imperioso, dall'altro figura emblematica, segno instabile di un'appartenenza sempre smentita. Ecco allora Quando l'inferno si scatena di Kenneth G. Crane, ma anche il bellissimo La legge del mitra di Corman in cui Bronson sembra uscito fuori da un Hawks anni 30' (Scarface in particolare), nei panni di un rapinatore assolutamente folle, non così tanto però da abbracciare un orizzonte melvilliano. Alla fine infatti viene catturato dalla polizia, ma non prima di ave consumato a colpi di accelerazioni improvvise un sentiero di morte, attraversato di tanto in tanto dalle convulsioni di un melò singhiozzante che non ha tempo di consumarsi per intero. Poi I magnifici sette di Sturges (film epocale in cui Bronson è circondato da grandi come Brynner e Mc Queen), e ancora La grande fuga, sempre accanto a Mc Queen. Bronson è una mina vagante nel set, il cosiddetto duro, capace però di abbandonarsi a momenti di grandissima umanità. Abita il presente della messinscena per naufragare continuamente in un altrove mai ben precisato, come se il movimento visibile non fosse altro che uno strascico sofferente del passato. Perfetto allora per il cinema oltre il cinema di Corman, ma anche per lo stesso grandioso Fuller che in Quel dannato pugno di uomini (in cui Bronson cerca di vendicarsi del fratello) prepara direttamente la strada all'Aldrich di Quella sporca dozzina, inserendo Bronson in una intricata ragnatela di reminiscenze classiche che in quel preciso momento cinematografico (ci troviamo nel '67) andavano in direzione opposta alla nouvelle vague del Penn di Gangster Story e a tutti quei registi che cominciavano ad abbandonare la sublime automaticità del cinema classico (Cukor, Hawks e così via) per interrogarsi sulla forma data all'immagine in movimento. Non che Aldrich non lo faccia, ma certo è che nel suo film (letteralmente illuminato da Bronson) si respira davvero un'aria d'altri tempi, assisa su uno sguardo flagrante e maestoso interamente centrato sui corpi degli attori e sui loro scatti.

Bronson è ormai diventato una realtà di questo cinema (il suo è un personaggio silenzioso, introverso, quasi restio al contatto fisico con gli altri personaggi raccontati sulla scena), pronto insomma per entrare in contatto con una dimensione nuova dell'agire, fornitagli da Sergio Leone per C'era una volta il West. Quella del mai troppo celebrato regista romano è l'incursione romantica e vitale come poche altre all'interno di una dimensione non più realistica, non ancora fantastica, ma appunto fiabesca, direttamente all'interno di un passaggio storico (la fine del vecchio West che si fa da parte con l'avanzata della ferrovia) in cui Bronson (nella parte del pistolero Armonica) non è più un soldato, un malvivente votato all'autodistruzione, e nemmeno un pistolero, ma appunto un archetipo, un simbolo, un segno di sopravvivenza mal digerito dall'influenza nefasta del capitale. E' un'opera di spettri C'era una volta il West, prima ancora de Il mucchio selvaggio e subito dopo L'uomo che uccise Liberty Vallace, l'intonazione funebre consapevole di un genere, un canto di morte sussurrato dai corpi oscillanti di entità di mezzo, filmate come corpi sospesi tra una vita passata e una morte non ancora sopravvenuta. Bronson sfuma come pochi col solo battito di ciglia, e si afferma forse qui davvero per la prima volta come interprete capace di passare da una fisicità notevole, ad una sorta di assenza quasi astratta di corpo, come a suggerire itinerari di un altrove che nell'ultima sequenza si allargano con un dolly che prepara l'irruzione finale di un occhio che si ri-perde nelle vastità di un cinema senza confini. Non a caso Bronson subito dopo il 68' inizia a perdersi in set anche casuali, sparsi qua e là per il mondo. Città violenta allora di Sollima (indimenticabile la rincorsa di Bronson alla donna che l'ha tradito), ma anche Due sporche carogne in cui gira in Francia con Delon, per poi tornare in Usa e passare direttamente al ruolo di una vita, il suo giustiziere notturno (parliamo de Il giustiziere della notte, di Micheal Winner). All'epoca fece scalpore, fu accusato di fascismo e via dicendo, e per l'occasione venne coniata addirittura l'espressione "Bronson-pensiero, alludendo chiaramente ad una miscela di razzismo/intolleranza/giustizia personale. Potrebbe essere vero, siamo d'accordo, e allora, qual è il problema?. Appunto, nessuno. Winner/Bronson non hanno realizzato, vivaddio, un film a tesi, ma soltanto uno spaccato della società americana degli anni Settanta arroventato a fuoco lento da uno sguardo che rifugge la luce per cullarsi nelle asprezze notturne. A pensarci bene, prima ancora de I guerrieri della notte di Hill e appena dopo qualche opera di Dassin (ci inseriamo volentieri i Trafficanti della notte, pur ambientato a Londra) Winner affoga ogni spunto sociologico in una notte avvolta da un buio pesto, concedendosi colori pastello (la sequenza dello stupro della figlia del protagonista) e dando vita ad un cinema cupo, rozzo, spietato, non certo adatto ai palati fini di una certa intellighenzia di sinistra (la stessa che probabilmente oggi va in brodo di giuggiole per La meglio gioventù e compagnia bella), intenzionato sin dalle prime sequenze a rifare una sorta di western metropolitano (questo grosso modo lo schema delle discese notturne di Bronson nei quartieri più malfamati della città, quasi a presagire certi toni di Taxi Driver) in cui il senso morale delle opere di Boetticher, Mann, De Toth (non a caso incentrate sul percorso di vendetta, morte, espiazione) si stempera in un'assenza di etica, semmai ricavabile soltanto sotto forma di ombra di sé nella coazione a ripetere/distruggere del protagonista. Bronson è duro, implacabile, vero animale metropolitano che abbandona la culla dorata dell'agio e del benessere per immergersi nell'inferno di una microdelinquenza senza nome. E' un cane di paglia insomma, capace di aderire perfettamente ad uno sguardo effettistico, triviale, eppure in grado di tracciare in poco la ripianificazione topologica di un cinema che stava cambiando neanche troppo lentamente. Se ne accorse il grande Walter Hill che impiegò proprio Bronson per il ruolo da protagonista nel bellissimo e misconosciuto Eroe della strada, in cui il cinema senza tempo del regista americano torna al corpo a corpo vissuto sulla pelle maleodorante dei sobborghi, e in cui Bronson tira fuori una grinta che anticipa direttamente la muscolarità senza regole dell'ultimo Scorsese. Sul finire degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta Bronson si barcamena in pellicole per di più mediocri (con l'eccezione del bellissimo Telefon di Siegel) continuando la serie infinita del giustiziere della notte (il terzo comunque non è niente male). Per poi arrivare direttamente al recupero accennato all'inizio dei suoi figli d'arte, a cui ha regalato un ultimo, indimenticabile, guizzo finale. Appena prima della dissolvenza in nero.

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