Scarlett Johansson: il riflesso di Lucy

E' forma sempiternamente in divenire, fin dall’età passibile di oscillazioni tra l’adolescenza sgualcita e la maturità dolentemente frustrata. Interprete come tramite, illustrazione carnale di drammi che si sfogano sulla superficie accogliente e levigata della sua pelle ed esplodono da un’altra parte. In sala con Lucy di Luc Besson

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Riflessi sulla pelle. Nel videoclip dei francesi The Teenagers, che con spirito coerentemente adolescenziale dedicano alla diva Scarlett un brano quasi omonimo – Starlett Johansson –, compendio didascalico-amoroso di dettagli biografici & aneddotica sentimentale. Sulle rime semplici e banali di questa bibbia profana, solo un corpo di donna che diventa il letterale proiettore della loro ossessione: scorrono e si deformano le sagome maschili riprodotte sulla sua schiena nuda. La ragazza sullo schermo è un’altra attrice, ma l’immagine è sorprendentemente (inconsciamente?) illuminante: motore e fine unico della traccia musicale, questa lanterna magica dalle forme sinuose comprime in una manciata di minuti il senso dell’attrice Scarlett Johansson. Interprete come tramite, illustrazione carnale di drammi che si sfogano sulla superficie accogliente e levigata della sua pelle ed esplodono da un’altra parte, negli angoli dell’inquadratura che lei sembra sempre riempire e traboccare: con la silhouette della pin-up retrò e lo sguardo appesantito di vissuto ineffabile eppure percepibile, Scarlett non è la storia che ci raccontiamo, e pure gli spot dei profumi, che da contratto eternano il sentimento del Sogno, l’ammantano di una malinconia quasi tragica, di una patinata nostalgia nei confronti di un’altra vita. A trent’anni, la Johansson indossa i segni di un passaggio e di un passato.

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Ora è in sala con Lucy, dove è una studentessa costretta a lavorare come corriere per i narcotrafficanti e che sviluppa incredibili capacità fisiche e mentali dopo che una sacca con della droga viene assorbita dal suo organismo.

Ha dato al cinema più di un corpo da vestire e spogliare, Lei di Spike Jonze dimostra finalmente che è prima di tutto un corpo su cui fantasticare: la sua Samantha, voce scelta femminile da Theodore/Joaquin Phoenix, nasce da un generatore automatico di domande generiche e si sviluppa nella forma dannatamente perfetta della possibilità. Perché l’amore si nutre d’immaginazione centripeta e miope, plasmata e rimodellata sul nostro ego e sulla nostra esperienza, scolpita sull’orizzonte autentico e svilente di conquiste e sconfitte squisitamente personali. Scarlett/ Samantha è un sistema operativo incorporeo e un proiettore di balsamiche visioni a misura d’uomo emotivamente fallimentare, fantasie antiaderenti alla botta della realtà futuristica ma così contemporaneamente velleitaria ambientata a Los Angeles e ricostruita a Shanghai: un grande piccolo mondo di superfici specchiate, in cui l’unico documentario innovativo concepibile è la ripresa a rullo continuo di un essere umano in fase REM. Il congegno dell’amore perfetto si disinnesca quando il sistema si espande, quando l’immagine elude i confini della somiglianza, quando lo specchio rassicurante del sé si rompe e i vetri si spargono tutt’intorno. L’emancipazione del sogno è la dimensione di un nuovo, antico naufragio: Samantha non può più vivere nel libro di Theodore perché ha conosciuto gli spazi bianchi tra le lettere, perché il passato è una storia che ci raccontiamo e il futuro è appannaggio di chi contempla l’ipotesi eccitante e respingente della trasformazione, della crescita, dell’Altro.

Scarlett Johansson è forma sempiternamente in divenire, fin dall’età passibile di oscillazioni tra l’adolescenza sgualcita (Una canzone per Bobby Long, dove la sensuale ambiguità diroccata di New Orleans è il paesaggio naturale della sua figura rabbiosa e incerta) e la maturità dolentemente frustrata (Lost in Translation) o entusiasticamente curiosa (il tris alleniano). L’abbraccio (im)possibile tra il principio di piacere e l’istinto di realtà è la corrente che percorre tutta la sua carriera. Declinata in commedia, dramma, teen movie, videoclip (quello, bellissimo e infiammabile, scritto da Nick Cassavetes per Justin Timberlake, dove Scarlett è la cortigiana voluttuosa, tediata e persa di una ipnotica reggia circense), lei è la voce dissonante di un conflitto interiore. La ragazza bellissima che sorride a labbra inumidite schiudendo cataclismi, parla con la raucedine incendiaria di una che s’è bruciata tante volte eppure accende un’altra sigaretta, sul filo di una rete da ping pong che diventa vischiosa ragnatela, sull’uscio di una porta che non chiude mai prima che si spalanchi sul baratro. Scarlett carnefice e vittima, languida e inquieta, minuta e ingombrante, sempre riflesso di aspettative fantasie illusioni delusioni, sempre colpevole di un ineluttabile peccato di umanità.


Perché la carnalità che buca e puntualmente eccede lo schermo è la sua dannazione eterna, il gancio inevitabile e fatale con la terra, la promessa formulata con gli occhi e con il corpo di andare fino in fondo non importa il prezzo. Invischiata in triangoli dove le altre punte sono temperate dalla cieca smania di vincere – The Prestige –, è la donna che semplicemente ama, che per amore e solo per amore tradisce, che per vanità altrui viene barattata al costo di un trucco, in cambio di un libro di effetti speciali. Nel quadro/quadrato firmato Woody Allen, è il lato apertamente scoperto: appassionata e volubile, infantile e indomita esploratrice degli angoli più affollati e meno confortevoli di una relazione, sposta l’asse del suo desiderio istintivo assecondando i venti soffiati dagli altri. Vicky Cristina Barcelona la infila tra l’amica assennata protagonista della sbandata vacanziera e la città filtrata di giallo caramellato che seduce e sconquassa: Cristina scatta le fotografie e s’illude di cogliere l’anima, mentre la camera oscura è solo l’ennesima scatola magica che tradisce le sue migliori intenzioni. Eternamente Lost in Translation, perché non c’è abbastanza spazio per viverla tutta nel tempo di un film. Sofia Coppola l’ha ripresa in attimi sparsi durante una settimana allungata dal torpore dell’insonnia e del whisky: istantanee di pochissime parole e tantissimi sguardi, riflessi nei finestroni di un grattacielo, sulle pareti specchiate di un ascensore, sul cubo trasparente di una stanza-karaoke. Piedi nudi sul cornicione e occhi che rimbalzano carichi di interrogativi irrisolti dall’esterno all’interno: caos di lenzuola accartocciate e correlativo visivo di un vuoto di aspettative, ancora, da riempire. Scarlett/Charlotte, la moglie bambina e la donna incompleta, quella che smonta senza arroganza l’ignoranza degli altri e ignora con malcelato sconforto ciò che sarà: la protagonista femminile di Lost in Translation è l’essenza più pura della possibilità, inafferrabile prima di tutto a se stessa e comprensibile solo alla sbarra di un rapporto – scompensato quello col marito pragmatico e impegnatissimo Giovanni Ribisi, teneramente sospeso quello col nuovo amico Bill Murray che, come lei, è un ospite di giornate troppo lunghe da diluire. Stesa sul letto di lui, accoccolata come un animale che monopolizza lo spazio perché si sente a suo agio e non perché reclama carezze, la Johansson è esposta e frangibile. Sul cornicione che separa la città coi suoi neon stordenti e la camera d’hotel coi suoi manuali di auto-scoperta da ascoltare in cuffia, amaramente consapevole della propria incompiutezza.

Stupisce che anche nelle sue manifestazioni più superficiali o stilizzate – il cliché della bionda puritana nella prima regia dell’amico Joseph Gordon-Levitt, Don Jon, il ruolomanifesto di predatrice sognatrice nel corale & chiarificatore La verità è che non gli piaci abbastanza –, si confermi inadatta alla vita reale, in palese contraddizione con la promessa di perfezione suggellata dalla sua bellezza piena e carica. Pure quando impersona la giovane conformista che proietta l’amore sul poster di Titanic appeso alla porta della stanzetta rosa, all’impatto con l’iceberg della porno-dipendenza si sgretola, ribadendosi la ragione in un immaturo, autistico processo autoassolutorio. Anche se inchiodata alla sagoma elettrizzante e sexy dell’insegnante di yoga svampita e ammaliatrice, cade per il pretendente più vile e superficiale, e miseramente fallisce. Finisce sempre per compromettersi e scottarsi, probabilmente perché si avvicina troppo. Talvolta ne muore – in Match Point la fortuna le volta le spalle, sarà che il suo personaggio d’attrice fallita e amante impulsiva non l’aveva mai interpellata, affidandosi piuttosto all’istinto sincero e rovinoso. Se non uccide fortifica, e Scarlett Johansson sembra portare impressi sulla pelle i marchi a fuoco delle storie incenerite, al punto che l’immagine della sua schiena opalescente e segnata in The Black Dahlia cortocircuita spontaneamente con la foto diffusa in rete dove sfoggia il tatuaggio fresco d’inchiostro a forma di ferro di cavallo. C’è scritto Lucky You, e più che un gesto apotropaico pare un monito, una sorridente dichiarazione d’indipendenza: la pancia arrossata come una tela arricciata dall’ago, il disegno sembra realizzato da un bambino con scarsa attitudine artistica ma contemporaneamente rivendica il diritto a proiettare immagini brutte, sgradevoli o, semplicemente, mediocri. Quando le hanno chiesto perché avesse scelto una decorazione permanente così “da galera”, ha risposto soltanto che la faceva felice. Forse le cose sono più semplici di quanto appaiano.

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