Pietro Germi, tutto il cinema del mondo

pietro germi

A quarant'anni dalla morte ricordiamo il regista, moralista a volte esasperato che guardava alla tradizione e che sembrava odiare i nuovi assestamenti della società italiana. Il suo personaggio ha sempre vissuto una profonda contraddizione. Il suo cinema oppositivo ha raccontato le storie di un'Italia provinciale che ha abbracciato temi universali ben radicati nella cultura italiana.

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pietro germiQuando Pietro Germi, classe 1914, provò ad entrare al Centro sperimentale di cinematografia la commissione esaminatrice lo scartò immediatamente poiché “deficientissimo di nozioni pratiche” e anche perché, dissero, “pare dotato di scarsi mezzi”. Non sappiamo se il prosieguo della sua carriera fu una lunga rivincita davanti a questi giudizi così definitivi e spietati, ma sappiamo che Germi si rivelò un grandissimo artigiano del cinema, un attento, scrupoloso e lungimirante osservatore del mondo, un uomo politicamente attento che ha, attraverso il cinema, dato immagine e voce alle sue idee sull'Italia, sulla sua condizione culturale. Per fare questo è sempre partito dal basso, impegnando le proprie forze per raccontare la speranza di un progressivo mutamento di quelle radici culturali e dei retaggi di un'Italia ancora antica, polverosamente arroccata su un armamentario di anticaglie che hanno regolato (e continuano a farlo, ancora oggi!) i rapporti, il costume e la vita sociale e quotidiana.

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Germi è stato un moralista, di un moralismo a volte esasperato, un uomo che guardava alla tradizione, ma sembrava odiare i nuovi assestamenti della società italiana. Il suo personaggio viveva una profonda contraddizione che il cinema accentuava nella sua drammatizzazione e se i suoi film sembravano far trasparire a tratti uno spirito progressista di un socialdemocratico, in effetti tutto ciò era solo frutto di quella lungimiranza che anticipava i tempi, di quello sguardo sempre curioso.

Polemicamente la sinistra, la sua critica, fu sempre lontana dal cinema di Germi, non riconoscendo in quel lavoro né un valore esteticamente sufficiente a farlo considerare uno dei maestri della nostra settima arte (c'è ancora l'eco di quel “deficientissimo di nozioni pratiche”), né un contenuto tale da potere corrispondere a quella idealizzazione che gli intellettuali della sinistra avevano della classe operaiaIn nome della legge, 1948 . I suoi protagonisti erano gente del popolo ma che vivevano in una società che stava cambiando, ma l'intellighenzia accreditata non poteva proprio vedere un operaio immischiato in trame da dramma borghese.

Invece, il cinema del genovese arrogante e misantropo, silenzioso e scontroso, ma in fondo gentile e loquace, se opportunamente sollecitato, puntava proprio su queste storie, nelle quali l'ambiente familiare sembrava amplificare i temi dei tabù sessuali e della diffusa forma di ipocrisia sociale. I titoli che hanno scandito questo percorso così complesso prendono avvio, sia pure in modo anomalo, nello sviluppo del neorealismo. Il testimone (1946), ma soprattutto Gioventù perduta (1947) risentono del clima culturale dell'epoca. Staccandosi da una tradizione italiana, quanto a riferimenti cinematografici, ma restandoci pienamente sotto il profilo dei contenuti, In nome della legge (1948), costituisce un esempio di racconto fortemente contaminato dalle componenti del cinema della tradizione classica americana. La storia del magistrato Schiavi, inviato nel paese della Sicilia che si troverà a combattere, per amore della giustizia contro il notabile del paese, si tinge dei colori del western, ma sotto il profilo dei contenuti, un finale forse ambiguo ne ha sempre penalizzato il giudizio compreso quello di Leonardo Sciascia che restò sempre critico sul lavoro di Germi. Resta il fatto che mai il tema della mafia era stato trattato con tale esplicita chiarezza e il film resta Il cammino della speranza, 1950comunque affascinante ancora oggi.

A conferma del suo amore per la Sicilia, che ritornerà ancora più avanti nel cinema del regista genovese che affermava che la Sicilia era Italia due volte, poiché sottolineava ed esasperava i vizi e le virtù degli italiani, nel 1950 è la volta di Il cammino della speranza. È un racconto di profughi minatori che dall'isola tentano l'emigrazione clandestina in Francia attraverso i passi alpini dopo avere percorso l'Italia intera. Con questo film Germi sperimenta pienamente la sua vena drammatica, accentua la sua distanza dai canoni del neorealismo e costruisce un film sempre vicino a certa narrativa americana (Furore, ad esempio) trasgredendo ogni regola di genere, ma allo stesso tempo consegnando un film di grande potenza visiva che nasce da un solido elemento narrativo, un racconto romanzesco che attinge alle forme drammaturgiche del verismo pienamente aderente alla materia narrativa.

Di minore riuscita è il successivo La città si difende (1951) noir in parte realista e caratterizzato da un che corrisponde alla tipologia del racconto sospeso tra il destino e la redenzione. Un film che pur nelle sue pecche resta amabile e accattivante. Dopo l'inattesa incursione nella pochade da vaudeville di La presidentessa, sempre nel 1953, il cinema di Germi torna alle sue storie meridionali e drammaticamente solide con Il brigante di Tacca del Lupo.

Germi è inevitabilmente attratto dal meridione, nonostante la sua origine. Forse un'antica comunanza di tradizioni, forse il suo carattere fortemente umorale che lo portava ad amare le contraddizioni e l'accesa vitalità di un meridione che, nel mito letterario e narrativo in genere, si trasforma in un calderone in cui convivono sentimenti forti di vendetta e passione, legami di sangue e desiderio di morte. Questa complessa ricchezza di emozioni si confaceva al Il brigante di Tacca del Lupo, 1953cinema di Germi, forse perché in queste manifestazioni vedeva un'autenticità che amava e che serviva al suo cinema. Una verità che al di là di ogni giudizio estetico si trova sempre nella sua opera. Un film sul brigantaggio che affronta con il solito piglio di Germi la questione meridionale, interpretando, con un taglio forse ingenuo i rapporti tra le parti in lotta: i briganti da una parte e l'esercito sabaudo dall'altra. La stagione dei film per cui Germi divenne davvero famoso nel mondo è iniziata nel 1956 con Il ferroviere, al quale seguirono L'uomo di paglia (1958) e Un maledetto imbroglio (1959), quindi Divorzio all'italiana (1961), premio Oscar per la migliore sceneggiatura e nel 1964 Sedotta e abbandonata e lo sfrontato Signore e signori del 1966, tra cui come attore anche il regista Giulio Questi scomparso proprio in questi giorni. Una striscia di opere attraverso le quali il migliore Germi mette in scena tutta la sua capacità narrativa, tutto il suo sarcasmo acido verso tradizioni e costumi, la sua critica sociale e politica. Questa sua felice produzione si divide tra dramma e commedia, tra satira e noir, attingendo all'inesauribile Gadda, ovvero con un'operazione di trasformazione alla tanta letteratura che in quegli anni lavorava sotterraneamente, ma forse neppure tanto, in favore di un rinnovamento culturale si, ma sociale soprattutto. Signore e signori, 1966

Nell'ultimo periodo il talento del regista si rivolse alla commedia sempre più popolare, con le sue solite sterzate controcorrente, firmando la regia di Serafino in pieno 1968. E' interessante notare come il suo cinema sia perennemente contro, rispetto ai modelli culturali che sono in qualche modo imposti. In piena rivolta giovanile e non, universitaria e operaia, Germi ci conduce dentro un falso idillio campagnolo, mette al centro la strana figura di un pastore che in fondo è un marginale, un uomo che vive contro le regole ed è vittima di quelle stesse consuetudini. Con Le castagne sono buone (1970) il regista genovese fa molti passi indietro e firma un film da dimenticare nel quale la schematicità della trattazione tradisce i sentimenti del regista, la sua avversione conservatrice verso un mondo in rapida trasformazione che sembrava non comprendere. Alcuni eventi della vita personale, che in qualche modo ritornano nel film, non aiutano la sua riuscita. Il risultato è quello di un film assai imperfetto dal quale l'autore si sarebbe in parte riscattato con il suo ultimo lavoro. Alfredo Alfredo (1972) con Dustin Hoffmann assume la struttura di Divorzio all'italiana e dentro la storia del timido Alfredo, che vive la vicenda nel pieno dei tempi del divorzio, ritroviamo il lato sentimentale di Germi. Il suo congedo dal cinema è molto romantico per un film nel quale il bisogno d'amore del suo protagonista si unisce ad un pessimismo che assume l'aspetto del finale di partita, che Germi sembra nutrire per le relazioni d'amore. Amici miei, scritto dal regista, sarebbe stato diretto da Mario Monicelli la cui poetica se non aderente è stata sempre vicina a quella del suo amico genovese.

Il cinema di Germi così multiforme, nasceva comunque daAlfredo Alfredo, 1972 radici forti, da una tradizione di solido impianto e con tutti gli alti e bassi della sua carriera, nella quale si cimentò anche come attore nei suoi stessi film, resta un cinema autentico, sincero, con uno sguardo che portava lontano. In bilico tra commedia, dramma e satira di costume ha saputo raccontare, attraverso i generi più popolari, le passioni segrete di un'Italia nascosta, sapendo riportare alla luce ciò che è stato sempre sotto gli occhi di tutti.

Oggi a quarant'anni dalla sua morte, questo cinema così oppositivo che ha raccontato le storie di un'Italia provinciale e nel contempo è riuscito ad abbracciare temi universali, che appartengono al cinema di tutto il mondo – e il premio Oscar ricevuto in qualche misura ne è la dimostrazione – ci sembra radicato nella cultura italiana e il lavoro di Germi, frutto della sua vena polemica, così sincera e costante, oggi appare forse lontano dal turbinio di un cinema a volte troppo accomodante e plaudente.

Chissà cosa ne avrebbe pensato lo scorbutico Germi dei nostri tempi? Il suo cinema si sarebbe forse chiuso con uno smorfia di amara rassegnazione, quella dell'allegra banda di Amici miei e nel disadattamento consapevole e felice di quei personaggi ci piace immaginare anche lui Pietro Germi, il genovese solitario “deficientissimo di nozioni pratiche”.

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