Stelvio Massi: cinema, solitudine e rabbia
E' morto in una clinica di Velletri Stelvio Massi, uno dei cineasti più rappresentativi del nostro poliziesco anni Settanta. Ma la canna fumante del suo cinema non smette di crepitare, indomita e lucente, negli occhi traslucidi di Maurizio Merli, nell'andatura irresistibile di Tomas Milian, nelle crepe voraci di opere fuori da ogni tempo.
Sulla scia di un lungo crepuscolo di morte, Stelvio Massi, chiamato a gran voce dai decani di un cinema invisibile e assoluto (Gariazzo/ Di Leo/ Margheriti/ Bava/ Fulci), si congeda per sempre dall'oblio custodito dal colpevole e smemorato presente. Facile celebrarlo ora, troppo presto/troppo tardi, anche se la canna fumante del suo cinema non smette di crepitare, indomita e lucente, negli occhi traslucidi di Maurizio Merli, nell'andatura irresistibile di Tomas Milian, nelle crepe voraci di opere fuori da ogni tempo. E' la cifratura di un ineffabile amore per il cinema che Massi disegna, come orbita accecata dal chiarore diffuso di un gesto filmico eterno. Ma è anche l'ossatura profonda di una geografia filmica che parte, forse, col Guerrini di Gangster '70 e capitola con lo stesso Massi e il Merli di Poliziotto, solitudine e rabbia, per dirci del tramonto già filmato/visitato/esperito di un corpo sospeso sui margini della morte. Ci troviamo a navigare sulle acque agitate di un cinema vissuto appunto come fase intermedia di un percorso accidentato e stimolante. In questo senso Stelvio Massi (già direttore della fotografia di numerose opere), si colloca nell'interstizio che divide lo sguardo di un Di Leo (ma potremmo parlare dello stesso Lenzi, specialmente quello di Milano odia…la polizia non può sparare, il suo capolavoro assoluto), da quello che si biforca poi nella comicità spesso sublime del Corbucci di Squadra antifurto. Semplifichiamo, è vero, ma le cose stanno più o meno così. Mentre un Di Leo riprende in mano lo Scerbanenco più spinto e politico, sublimandolo nell'isteria controllata del Moschin di Milano Calibro 9, Massi è ancora indeciso sul percorso da intraprendere. Tentenna un po', in seguito gli corre in soccorso Mario Gariazzo (uno dei nostri più grandi registi, ma anche eccezionale sceneggiatore, autore dell'irraggiungibile La mano spietata della legge) che gli cuce addosso lo script di Giuda uccide il Venerdì.
Laddove allora il set cittadino ospita sempre più frequentemente geometrie di morte e di violenza, Massi, ne lo stesso Mark il poliziotto, piega il grigiore abitudinario del set poliziesco alla luminosità fantasiosa di un corpo franco, come improvvisante liberato dalle pulsioni di morte che invece indugiano ai margini, come sospese a tempo indeterminato. Mark torna allora in altre due opere successive (Mark colpisce ancora e Mark il poliziotto spara per primo per primo) e impone in un certo senso l'acrobazia registica di un occhio libero e selvaggio, capace di prolungare una vita (appunto quella dello stesso Mark nelle giravolte sublimi di una fisicità ariostesca, anche per il suo calcare i set più svariati), aggirando ogni ombra mortifera. Sotto questo frangente, Massi inventa un modo di raccontare il poliziesco che manda all'aria quasi ogni aggancio al presente, formulando la gratuità accesa e piena di un divertimento contagioso, proprio perché libero da ogni pastoia drammatica. E' per questo motivo che un'opera come La legge violenta della squadra anticrimine ci pare (nonostante la sempre sublime scrittura di Dardano Sacchetti, davvero uno dei fondatori del poliziesco di quegli anni) una sorta di pausa presa dal regista, un break condotto lungo gli stralci di un racconto che non rientra nelle sue corde, forse per il suo ricordare sin troppo una cifra linguistica spuria. Ma si tratta appunto di una riflessione anche lacerante che smembra le coordinate del cinema dei quegli anni, imponendo in Massi l'urgenza viva e immediata di riprendere il personaggio di Mark, invecchiandolo di qualche anno e condannandolo definitivamente a morte. Dopo l'incursione in un territorio che appartiene propriamente a Umberto Lenzi (parliamo de La banda del trucido in cui Milian si scatena riproponendo il personaggio originario de Il trucido e lo sbirro), Massi si inventa la fine del genere, il tramonto dell'eroe, l'erosione di tutto il suo cinema, improvvisamente deflagrato in mappa sensoriale destituita di ogni riferimento alla vita. Maurizio Merli, subentrato a Franco "Mark" Gasparri, rappresenta allora una continuità (Merli aveva già interpretato opere simbolo di un certo disagio come Roma a mano armata e Roma violenta, a sua volta epigoni del fondamentale La polizia incrimina…la legge assolve di Castellari), ma al tempo stesso una frattura.
Se infatti nei suoi movimenti defilati attorno al soggetto di base si avverte la ripresa di un preciso clichè in movimento, è anche vero che Massi si abbandona ad una potente e nervosa stilizzazione che procede ad una astrazione in piena regola dell'intera visione. In opere come i sublimi Poliziotto sprint, Il commissario di ferro, Un poliziotto scomodo si avverte la tensione inesausta di un universo di morte e di abbandono che punteggia ogni sequenza, con un Merli stanco, disilluso, vittima di una visione ormai impermeabile, chiusa ermeticamente ad ogni sviluppo. E' come se Massi si abbandonasse alla contemplazione assorta di un panorama narrativo ormai esausto, per ripiegare poi nelle straordinarie screziature emozionali di un' intimità che prende improvvisamente il sopravvento (i mirabili momenti di tenerezza tra Merli e il figlio in Il commissario di ferro, il rapporto sentimentale dello stesso Merli con la sua donna in Un poliziotto scomodo), sancendo in qualche misura la fine di ogni comunicazione con l'esterno. Massi indugia negli interni, si concede ancora qualche disparato momento spettacolare sempre più timido e sparuto, ma quella filmata dal suo occhio è l'eclisse dei vasi comunicanti con la realtà. La vita da difendere e filmare è quella che perdura in sguardi impensabili, in promesse d'amore, in sacrifici di morte, all'interno di un set domestico in cui si consuma lentamente la morte del genere. Tutte tracce precise allora di una messa a morte che arriva con quello che è a tutti gli effetti l'ultimo vero poliziesco del nostro cinema, Poliziotto, solitudine e rabbia dove tutto concorre alla definizione di un orizzonte di perdita lacerato e ridotto a brandelli. L'ombra pungente e malinconica di una stagione cinematografica irripetibile e sognante, che Massi ha impresso sul nostalgico riflesso di un'emozione terminale.