Verso il melodramma e il thriller. Paolo Virzì racconta il suo 'capitale umano'

Il cineasta livornese non parla solo del suo ultimo film Il capitale umano. Si sofferma su cosa è diventata l'Italia di oggi e sul fatto che non si sia scommesso sulla cultura, sulla figlia che dopo la laurea è andata in Danimarca. E tra i riferimenti, più che Von Trier per la scansione in capitoli, pensa a Chabrol, Mendes, Ang Lee o i Coen. Intanto i distributori francesi pensano di proporlo a Cannes

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Paolo Virzì ha la voce rauca. L’inverno, il freddo, la fatica di essere arrivato in fondo alla maratona del suo film, Il capitale umano. Ma anche la soddisfazione per le prime reazioni del pubblico, e della critica.

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Non era scontato. Era un rischio, raccontare la borghesia italiana nella luce fredda di un Nord Italia quasi da apocalisse. Raccontare un uomo ridicolo e cattivo, uno che cerca di fare soldi con un fondo che promette guadagni pazzeschi, il miraggio della scorciatoia per farcela, per uscire dall’abisso. Non era scontato convincere, raccontando una riunione di finanzieri e faccendieri con le loro Mercedes cupe come se fosse un funerale. Non era facile raccontare un film dove fossero tutti colpevoli, anche i poveri, anche i disgraziati, spaccando l’intonaco dei luoghi comuni e delle idee preconcette. Non era facile piacere con un requiem per il mondo così com’è, un Melancholia alla Lars von Trier filmato nelle Prealpi. Dove Bentivoglio è come un Fantozzi maligno, tragico. E intorno a lui, cresce un film come un mosaico mutevole, dove ogni tassello ci costringe a rivedere il disegno finale. Chiediamo a Virzì  di raccontarci come è arrivato fin qui.

 

 

La cosa che più colpisce di questo film è che non assolve nessuno. Anche se all’inizio sembra di sapere chi siano i buoni e chi i cattivi.

La cosa bella di questo mestiere, che continuo ad amare nonostante le tante botte che mi tocca di prendere, le polemiche pretestuose e tutto, è che narrare vuol dire spogliarsi di qualsiasi pregiudizio. Vuol dire entrare nelle percezioni di sé che hanno i personaggi. Capire le loro ragioni, quelle di tutti. E non andare avanti con i pregiudizi. Nessuno è innocente. Tutti sono colpevoli di qualcosa. E tutti credono di essere nel giusto, a fare quel che fanno.

 

 

Le atmosfere del film sono insolite, rispetto alla sua “commedia umana”, a volte anche molto amara. Ma qui si sconfina verso altri territori: il melodramma, il thriller.

Cercavo un’atmosfera insolita, dove ci fossero inquietudine, mistero, dolore. La disperazione attraversa tutti i personaggi: non è che la psicologa Roberta, interpretata da Valeria Golino, sia più felice della miliardaria solitaria Valeria Bruni Tedeschi. Abbiamo immaginato una borghesia avvelenata da una malinconia sottile.

 

 

Ma in definitiva come è la borghesia che lei racconta?

E’ quella più ignorante d’Europa, e la più cattiva. Non abbiamo scommesso sulla cultura, in Italia. E questo è il risultato.

 

 

I preti che vediamo nel film tutelano lo status quo…

I preti del film sono ispirati a delle scuole private che abbiamo realmente visto. Sono una combinazione tra antica tradizione gesuitica italiana e modello di college privato Usa, dove questi ragazzi vengono incentivati alle competizioni tra loro, piuttosto che alla conoscenza.

 

 

Ci sono anche dei momenti di autentica commozione nel film.

Sì, per esempio di fronte alla nascita di un amore vero. Però neanche i due ragazzi sono del tutto innocenti.

 

 

Come ha trovato i due volti, gli attori che interpretano Serena e Massimiliano?

Sono stati trovati dopo cinquemila provini tra Milano e le scuole di provincia. Lei non aveva mai fatto niente, se non delle gare di nuoto sincronizzato. Lui ha recitato nel film di Alessandro Gassman Razzabastarda….

 

 

Il suo sembra un film di respiro internazionale. Potrebbe andare al festival di Berlino…

Ancora non lo so. Credo che i miei distributori francesi stiano pensando di proporlo a Cannes.

 

 

Il capitale umano racconta il degrado anche urbanistico dell’Italia.  L’episodio del teatro dismesso è esemplare.

Il paesaggio racconta che cosa è diventata l’Italia. Con i borghi abbandonati e le new town asettiche, surreali. Assistiamo impotenti, ad esempio, alla morte di tutte le sale cinematografiche ‘di città’. Senza capire che quando saranno scomparse scomparirà anche un certo tipo di cinema, e sopravvivranno solo i blockbuster. Gente come Bellocchio, per dire, non farà più film. E questa situazione la combatti solo con una protezione pubblica. Perché sai che un cinema aperto è un patrimonio di tutti. Se ci saranno solo Multiplex i ragazzini vedranno solo commedie demenziali .

 

 

La politica può fare qualcosa?

E certo! Solo la politica può fare qualcosa. Io, al contrario di Grillo, non vorrei mandare a casa tutti. Vorrei che ci fossero, a governarci, quelli bravi. La demagogia che vuole ‘tutti a casa’ ci farà diventare il Far West. Se in Italia va a casa la politica, ci governa la camorra.

 

 

Avete scelto, con gli sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo, una struttura complessa. Ripercorrete gli stessi eventi da vari punti di vista. E la “verità” cambia ogni volta.

C’era, nel romanzo, una scena che suggeriva questa struttura. Noi la abbiamo ampliata a tutto il film. E certo, abbiamo anche giocato con le tecniche del giallo, creando una falsa pista. Ci piaceva creare attesa nello spettatore.

 

 

Sua figlia Ottavia se ne è andata dall’Italia. Perché?

Si è laureata con 110 e lode, ma i professori li doveva inseguire per un colloquio, e la trattavano a pesci in faccia. Quando è andata ad Aarhus, in Danimarca, per il master ha ricevuto una mail con tutti i numeri di cellulare dei professori. Ha provato a mandare una mail ad uno di loro, e dopo dieci minuti le ha risposto. In Italia è fantascienza.

 

 

La differenza tra l’Europa e l’Italia?

In Europa al centro delle università ci sono gli studenti, non i baroni. Loro sanno che gli studenti sono il capitale umano di una Nazione. Noi usiamo le università come parcheggi per disoccupati.

 

 

Il personaggio di Fabrizio Bentivoglio è un po’ un Fantozzi più cattivo?

In un certo modo sì. Fantozzi si è fatto furbo, è un viscido innocente adesso, crede di agire per il bene della sua famiglia e non sa di essere malvagio. Racconta la paura della crisi che non porta a rimboccarsi le maniche, ma a cercare le scorciatoie, come il fondo spregiudicato che ti farà diventare ricco in un batter d’occhio.

 

 

C’è una battuta nel film. “Avete scommesso sulla rovina di questo paese. E avete vinto".

Ed è così. Quando lo spread è schizzato alle stelle, in piena tempesta finanziaria, stavano scommettendo sul default dell’Italia. E in molti hanno brindato, in quei giorni.

 

 

Come è arrivato a truccare così Bentivoglio?

Gli ho mostrato un disegnino, una caricatura che avevo fatto del suo personaggio. Il giorno dopo è arrivato sul set esattamente così.

 

 

Aveva in mente Lars von Trier per la scansione in capitoli, o per certe atmosfere?

In realtà avevo in mente Chabrol, per i suoi ritratti di provincia in nero, e Sam Mendes, o Ang Lee, i fratelli Coen. Certo, stavolta non avevo in mente la commedia all’italiana.  

 

 

La struttura, così come è concepita, sollecita lo spettatore a interrogarsi di continuo su che cosa ha visto davvero.

Vedi passare una ragazzetta di corsa, e pensi ‘avrà  litigato col fidanzato’. Soltanto dopo capisci che è nel pieno di una tragedia che nessuno ha percepito. Sì, questo è un film sulle apparenze. Costringe lo spettatore a rimettere insieme i pezzi, e a pensare che niente è come sembra.

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