“Sono diventato regista per raccontare storie, non per fare un mucchio di soldi”. Incontro con Spike Lee

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In occasione della IX edizione del Gioco serio dell’Arte, rassegna che si interroga sulla relazione tra arte e uomo, la stampa e il pubblico hanno incontrato a Roma, nella suggestiva cornice di Palazzo Barberini,  Spike Lee, che nel corso degli anni – da Fa’ la cosa giusta, a Malcolm X, a Miracolo a Sant’Anna – si è distinto per aver affrontato questioni politiche e sociali

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spike leeIn occasione della IX edizione del Gioco serio dell’Arte, rassegna che si interroga sulla relazione tra arte e uomo, la stampa e il pubblico hanno incontrato a Roma, nella suggestiva cornice di Palazzo Barberini, Spike Lee, che nel corso degli anni – da Fa’ la cosa giusta, a Malcolm X, a Miracolo a Sant’Anna – si è distinto per aver affrontato questioni politiche e sociali. Il regista ha parlato anche del suo rapporto con lo sport e la tecnologia e dell’importanza della famiglia nella sua crescita privata e professionale.

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Qual è il suo rapporto con l’arte?

È la prima volta che sono qui in questo bellissimo museo. Sono stato fortunato perché sono riuscito a fare una visita velocissima, ma la prossima volta che vengo a Roma mi riprometto di passarci più tempo. Per quanto riguarda il mio rapporto con l’arte è un po’ come dire che rapporto si ha col sole, con l’aria, con l’acqua. L’arte fa parte di me.

E invece il suo rapporto con lo sport?
Sono un grande tifoso di calcio e quando ho scoperto che stasera c’era la partita ho chiesto dei biglietti. Tiferò la Roma, non mi piace il Manchester City. Nella Premiere League invece tifo Arsenal. Domani vado a vedere una partita di basket a Milano, quindi sono due giornate piene di sport. Sport e cinema sono i miei due grandi amori. Sono contento quando riesco a combinarli insieme, cosa che ho fatto anche sul lavoro con il documentario Kobe Doin' Work e il film He Got Game con Denzel Washington.

 

Cosa ne pensa di quanto è successo a Ferguson e a New York? 
Ogni volta che sono in un paese diverso dagli Stati Uniti accade qualcosa e mi si chiede di fare il portavoce dei quarantacinque milioni di afroamericani. Ma non sono un portavoce e quello che dico è strettamente personale. Sono tempi pieni di tensione e sembra che la gente sia stanca soprattutto nei confronti della polizia e di come si comporta con gli afroamericani. La cosa curiosa è che i manifestanti non erano solo afroamericani. C’erano anche giovani ispanici e asiatici. Quando è successo il fattaccio a Staten Island mi sono unito a loro. Spesso si dice che i giovani non hanno interesse per il futuro ma credo che queste proteste dimostrino il contrario. Nonostante sia stato girato un video che testimonia che il poliziotto è il responsabile della morte di Eric Garner, alla fine il Gran Giurì non ha incriminato nessuno. E nonostante poi l’autopsia abbia stabilito che è morto per omicidio. Spesso gli Stati Uniti vengono visti come il faro della democrazia ma non è così. Proprio ieri è uscito un reportage sulle torture della Cia nel post 11 settembre, che conferma queste atrocità. Per quanto riguarda il caso di Michael Brown a Ferguson non c’erano testimonianze video, solo testimoni, e anche qui non ci sono state prove sufficienti per incriminare il poliziotto. La mia domanda è: quando prevarrà la giustizia? Per il momento i poliziotti sono riusciti a farla franca ma speriamo che ci sia un nuovo processo. C’è una grande frustrazione in questo momento dovuta al fatto che i procuratori collaborano con la polizia e quindi si spera che le cose possano cambiare.

Perché ha deciso di insegnare all’università?

Insegno all’università da quindici anni e sono anche direttore artistico. L’insegnamento è importante tanto quanto il cinema. Peraltro insegno nella stessa università in cui mi sono laureato e Ang Lee era mio collega.

Quando si approccia a una biografia si immedesima nel protagonista?
Quando ho fatto Malcolm X non mi sono immedesimato, quello era il compito di Denzel Washington. Mi piacerebbe fare un’altra biografia qualora ce ne fosse l’opportunità. Per quanto riguarda la performance di Denzel, è stata una delle migliori in assoluto nella storia della cinema e non ha nemmeno vinto l’Oscar.

 

Quanto è importante conoscere la Storia?
La storia è fondamentale, è una delle mie materie preferite. Amo fare film che affrontano la storia, sia lungometraggi che documentari. Una delle esperienze più gratificanti è stata  Miracolo a Sant’Anna, che in parte ho girato qui in Italia. Quando ho scoperto la resistenza al fascismo e al nazismo ho voluto ricreare quel massacro. Sul set abbiamo sentito lo spirito di quelle vite che sono andate perse.

 

Qual è il suo rapporto con la famiglia?
Quando giro un film spesso la mia famiglia lavora con me. Mio padre, ad esempio, è un jazzista e ha composto molte musiche dei miei film. Mia madre, invece, è il motivo per cui sono diventato regista. Mio padre odiava i film, non mi portava al cinema. Ci andavo con mia madre, che da questo punto di vista è stata molto intelligente perché voleva che tutti i suoi figli fossero esposti all’arte. Ci portava a vedere gli spettacoli a Broadway, a visitare i musei. E sono contento che poi questo seme sia cresciuto. Quando si diventa genitori il mondo cambia. Ho dovuto fare molta attenzione a ciò che chiedevano i miei figli. Spesso i genitori credono di sapere cosa sia meglio per loro, ma spesso si sbagliano. Magari fanno molti sacrifici per mandare i figli all’università, sperando che diventino medici o avvocati. Mentre a volte invece vogliono essere scrittori, ballerini, musicisti. E quando trovano il coraggio di dirlo ai propri genitori, questi li fanno sentire in colpa. Da insegnante dico sempre ai miei studenti di scoprire quello che si ama davvero, perché il denaro non è tutto. Se si ha un lavoro che si ama, non si può chiamare lavoro. Lavorare significa fare qualcosa che si odia. I genitori a volte distruggono i desideri dei figli. Succede in tutto il mondo. Sono stato fortunato ad avere avuto i nonni che mi hanno incoraggiato. Quando ho deciso che volevo fare il cineasta, c’era solo un regista afroamericano. Mia nonna, che insegnava storia dell’arte, ha speso la sua pensione per mandare i nipoti all’università. Lei mi ha pagato il college e l’università dove ho studiato cinema.

Quali sono stati i suoi maestri di cinema?
Quando studiavo cinema alla New York University ho visto i film dei grandi maestri. Roma città aperta e Il conformista sono tra i miei preferiti. Anche il cinema di Vittorio De Sica. Sono film che sono stati girati per strada, tra le macerie del dopoguerra. Si usavano i passanti. Anch’io ho ripreso alcuni aspetti di questo genere nei miei film. Tra i miei registi preferiti poi ci sono Elia Kazan, Billy Wilder, Martin Scorsese. Mentre uno dei primi film che ho visto è stato Tutti per uno, che racconta del successo dei Beatles in quegli anni. Mi ci portò mia madre.

 

In Malcolm X il protagonista ha un’infanzia difficile. Anche per lei è stato così?

Mio figlio è andato in due, tre scuole private e provavano a scoraggiarlo come nel film. Ernest Dickerson e io siamo stati colleghi all’università, è un ottimo cameraman. Entrambi abbiamo studiato in un college importante per la cultura afroamericana. Il Morehouse era lo stesso che ha frequentato Martin Luther King. La nostra generazione era quella che per eccellere bisognava essere dieci volte meglio degli altri. Quando tornavo a casa da scuola con un voto alto, magari una A, mia madre si arrabbiava perché voleva che prendessi una A+. Voleva spingermi a dare di più. E la devo ringraziare per questo.

Cosa ne pensa della tecnologia?
Credo che la tecnologia ci stia distruggendo. Nel mio ufficio a Brooklyn ci sono due persone sedute a un metro di distanza l'una dall’altra che si mandano le mail per comunicare. A tavola, quando sono a cena, devo dire ai miei figli di lasciare i telefoni. Oggi comunichiamo meno. Ah, e non sono azionista di Apple!

La 25ª ora è stato uno dei suoi film più importanti
Sì, è stato il primo film che ho girato dopo l’11 settembre. David Benioff, che ha scritto il romanzo, ha deciso di adattare la sceneggiatura. Il libro racconta gli eventi prima di quella data. Ma noi volevamo che New York fosse la protagonista del film insieme agli attori. Volevamo mostrare una città che era stata colpita ma non sconfitta, che stava guarendo. Nel film poi c’è anche Philip Seymour Hoffman. Ci manca molto.

 

Qual è il suo obiettivo quando fa un film?
Non cerco di fare un film che incassi più di Guerre stellari. Sono diventato regista per raccontare storie, non per fare un mucchio di soldi. Fare il regista richiede flessibilità, e oggi non si fanno più i film di una volta. Oggi non potrei più pensare di fare Malcolm X o Fa’ la cosa giusta.

Ci può parlare del suo prossimo film?
Il mio prossimo film si intitola Sweet Blood of Jesus, una reinterpretazione di un film del 1977, e parla di persone dipendenti dal sangue ma che non sono vampiri. L’ho girato in diciotto giorni a New York e vi hanno lavorato molti miei studenti.

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