INTERVISTE – Kim Ki-duk: il dolore profondo degli umani

Intervista esclusiva al grande regista sudcoreano, realizzata da "Sentieri Selvaggi" nel 2001, in occasione della presentazione alla Mostra di Venezia di "Address Unknown". Sinora rimasta inedita, ve la proponiamo in occasione dell'uscita nelle sale italiane del bellissimo "Primavera, estate, autunno, inverno…", suo penultimo film

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Nel settembre del 2001, in occasione della presentazione di Address Unknown (di recente trasmesso da “Fuiori orario”) alla 58.ma Mostra del Cinema di Venezia, “Sentieri Selvaggi” incontrò Kim Ki-duk, il grande regista sudcoreano oggi apprezzato in tutto il mondo, ma che era stato lanciato proprio l’anno prima dalla Biennale, grazie alla sensibilità dell’allora direttore Alberto Barbera che aveva messo in concorso L’isola. Da quell’incontro venne fuori questa intervista, sinora rimasta inedita, che proponiamo in occasione dell’uscita nelle sale di Primavera, estate, autunno, inverno…, il nuovo film di Kim Ki-duk – ma non più l’ultimo, visto che è stato seguito da Samaria, di cui abbiamo parlato dall’ultima Berlinale.

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Nei suoi film c’è sempre una coincidenza tra l’amore e il dolore fisico. Ci può spiegare cosa sono per te questi due elementi?
Mi sembra che i film europei parlino molto dell’amore fisico, ma lo fanno in maniera intellettuale. Questo perché per voi europei esiste una cesura tra l’intelletto e il corpo, e forse vi risulta difficile comprendere davvero gli aspetti fisici del corpo; noi asiatici, invece, concepiamo il corpo in una maniera meno intellettuale, così, mentre per voi c’è una netta opposizione tra fisico e mente, in Asia il corpo è un elemento più fisico che intellettuale. Probabilmente per questo la mia visione dell’amore fisico è diversa, io cerco di chiedermi cos’è l’amore e cos’è il corpo. In genere si crede che siano due cose indissolubili, ma io cerco di interrogarmi sull’amore in una prospettiva più filosofica, anche per capire come questi due elementi – quello fisico e quello spirituale – si avvicinano l’uno all’altro.

È per questo che nei suoi film a ogni dolore interiore corrisponde una ferita esteriore sui corpi?

Ogni traccia che segna i corpi nei miei film, per me significa che i personaggi sono feriti mentalmente e spiritualmente, non solamente sul corpo. Il corpo fa visualizzare cosa è rimasto nello spirito.

A volte il lavoro suo corpo nei suoi film assume toni grotteschi. Pensiamo, per esempio, al fatto che nella lacerazione tra ferite fisiche e spirituali che spesso caratterizza i suoi personaggi, d’improvviso si aprano dei momenti di assurdo che creano un forte contrasto.

Il grottesco per me è un metodo, mi serve a superare i momenti di dolore e trasformarli in qualcos’altro per cercare di scoprire anche il dolore più profondo, quello che non è visibile e non si può spiegare. Per questo ricorro ai toni assurdi.

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È questo il motivo per cui a volte i suoi personaggi tendono a ferire i propri corpi, segnandoli in maniera parossistica, grottesca appunto?

Sì, in realtà si tratta anche di un gioco tra me, come regista, e il mio pubblico: cerco di provocare negli spettatori una reazione forte…

A proposito di metodo, ci può raccontare come prepara i suoi film, se scrive delle sceneggiature forti o lavora liberamente durante le riprese…

In genere, quando trovo un’idea la trasformo subito in un film! Non elaboro molto i miei soggetti, tendo a lavorare d’impulso. Scrivo sempre le mie sceneggiature, ma non uso lo storyboard.

Che tipo di formazione ha? Quali sono i suoi interessi nel campo artistico?

Non leggo molto romanzi o fumetti, piuttosto dipingo, sempre… molto… Anche durante le riprese! In Corea non ho mai frequentato una scuola di cinema né l’università, ma sono stato tre anni in Europa, in Francia soprattutto, dove ho studiato pittura. In quel periodo ho visitato anche l’Italia, andando da Milano a Brindisi. In Europa ho visto quadri di Toulouse-Lautrec, Edvard Munch, Egon Schiele… Tutte cose che mi hanno molto influenzato: credo di poter dire che i miei grandi maestri sono dei pittori, piuttosto che dei registi!

Ci può parlare della presenza americana in Corea? Non intendiamo solo la presenza militare americana, ma anche l’influenza culturale statunitense…

Da un lato c’è da dire che nel passato i coreani hanno idolatrato gli Stati Uniti, e questa è una cosa che persiste ancora oggi, anche se meno di prima. Dall’altro bisogna considerare che per il popolo coreano, soprattutto per le generazioni più anziane, la presenza militare degli americani è un elemento doloroso, perché rimanda in qualche maniera al fatto che c’è stata una guerra e che quella guerra più ricominciare in qualsiasi momento.

Del resto c’è anche la separazione tra Nord e Sud, una lacerazione che in qualche maniera ricorda quella dei corpi nei suoi film… Quanto è sentita questa frattura dai coreani?

Concretamente si evidenzia il grande problema della differenza economica dei due paesi: nel Sud c’è più sviluppo economico, mentre il Nord è povero. Del resto sia gli Stati uniti che la Cina e la Russia sono interessati a vedere la Corea divisa, perché l’unificazione significherebbe perdere i loro interessi nel nostro paese. Ma per noi, la divisione è come un’indigestione, che ci disturba ma della quale non riusciamo a liberarci.

 

Prima ha detto che considera suoi maestri più i pittori che i registi. Ma ci sono dei cineasti ai quali tiene comunque? Fassbinder, per esempio: conosce i suoi film?

No, non ho mai visto i film di Fassbinder. Qualcuno mi ha detto che il mio cinema ricorda quello di Nagisa Oshima, altri mi paragonano a Tarantino… Ma io non mi sento vicino a nessuno di loro. Mi piacciono molto i film di Emir Kusturica e quelli di Alejandro Jodorowsky.

E tra gli autori del cinema americano?

Martin Scorsese. Trovo bellissimo il suo episodio di New York Stories

 

a cura di Massimo Causo e Federico Chiacchiari

 

(Intervista realizzata al Lido di Venezia, nel settembre del 2001. Si ringrazia An Cha Flubacher-Rhim per la traduzione dal coreano)

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