François Truffaut, professione cinema (parte 3)

Per ricordare Truffaut a 20 anni dalla sua scomparsa (21/10/84), vi anticipiamo a puntate alcuni passaggi significativi dell'intervista-fiume inedita di François Truffaut concessa ad Aldo Tassone. Il libro, edito da CinEuropa, accompagna la retrospettiva di "France Cinéma" a Firenze (2 – 8 novembre). Parte 3a.

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Celebriamo gli 80 anni dalla nascita di Francois Truffaut riproponendovi alcuni passaggi significativi dell’intervista-fiume inedita di Truffaut concessa nel 1977 ad Aldo Tassone

Le donne

 

A proposito delle donne, Malraux diceva che gli uomini da sempre le hanno divinizzate, e se ora rinunciassero a questo sarebbe triste…

Sarebbe triste nei due sensi. “Sesso debole” è sicuramente un’espressione stupida e disgustosa, è vero; aveva ragione quell’editore americano che ha fatto passare una circolare (per tutti i libri che non sono dei romanzi) con una lista di espressioni vietate, tra cui “sesso debole”. Ciò detto, “eterno femminino” era una formula prestigiosa. Nei miei film si torna spesso (anche nei dialoghi) sulla ‘magia’ delle donne, nel ciclo su Antoine Doinel, ne La nuit américaine / Effetto notte (Léaud ripete tre volte la domanda e riceve tre risposte diverse).

Mi sembra che, se si vuole eliminare l’idea (maschilista?) della supposta magia femminile, si perde qualcosa, dal punto di vista dell’arte anzi si perderebbe molto. Non c’è niente da fare, se vai ad un appuntamento con una donna il cuore batte più forte che se vai a trovare un uomo, non è possibile ignorare questo, sarebbe tragico. Non bisogna mescolare le cose. Ci sono delle attrici in America oggi che rifiutano dei ruoli negativi di donne cattive: non è una buona idea, Eric von Stroheim ha sempre interpretato dei personaggi di cattivo, ci ha costruito sopra la sua carriera.

 

L’homme qui aimait les femmes (L’uomo che amava le donne, 1977) è un film molto acuto sugli uomini, ma anche estremamente rispettoso delle donne…

È un collezionista, che però si protegge troppo. In definitiva è uno che ha paura dell’amore. Il film poteva anche intitolarsi L’uomo che ha paura delle donne. Il protagonista rifugge dai legami, ha paura di vivere con una sola donna e quindi si rifugia nella quantità. Quando il film è uscito qualcuno mi ha detto: Morane è un uomo che vorrebbe diventare donna. Non ci avevo pensato, ma è un’ipotesi suggestiva.

 

Il suo film sulla solitudine di un collezionista di avventure fa venire in mente a momenti il Casanova di Fellini, uscito pochi mesi prima.

Mi è piaciuto molto il film di Fellini, l’ho trovato magnifico. Non ho capito le ragioni del suo scarso successo commerciale, è stata una vera ingiustizia. Forse il personaggio sarebbe stato accettato meglio se l’attore fosse stato italiano; e probabilmente Fellini ha fatto un grosso errore a ripetere nelle interviste che Casanova era un imbecille, senza volerlo ha contribuito a sabotare il proprio film. Forse ha avuto talmente paura che si facessero degli accostamenti tra lui e Casanova che ha lanciato i giornalisti su una falsa pista… Tanto più che il suo Casanova è filmato con tenerezza ed è molto vicino al Guido di 8 e 1/2. Alcuni momenti emozionanti di questo magnifico film così sincero sono tra le cose più belle che Fellini abbia mai fatto. Ad esempio la sequenza alla corte di Würtenberg, con tutti quegli organi e la “bambola meccanica”, la trovo sublime. È un momento nel quale il film prende il volo. Fellini non meritava quest’insuccesso, ma lui è superiore anche a questo.

Non hanno perdonato a Fellini di aver distrutto il mito della virilità di un campione italico del sesso come Casanova…

Avrebbero dovuto invece ammirare il formidabile coraggio del regista! Fellini è un artista che scoppia di salute e ha coraggio da vendere… Contrariamente a quello che la gente pensa non è per niente narcisista, e questo è molto raro in un grande uomo come lui; più che della propria immagine Fellini si occupa del suo lavoro di cineasta. Coltivare il piacere di lavorare è capitale per chi fa dei film, la penso esattamente come Fellini: voglio sentire in un film il piacere (oppure l’angoscia) di fare cinema, non la fatica, la routine; voglio sentire delle vibrazioni, nella gioia o nell’angoscia. Fellini oggi è il più grande. Insieme a Bergman, ma Bergman ama solo il cinema, non ama la vita (credo), mentre Fellini ama la vita. I suoi film sono l’esaltazione della vita. Sul piano visivo è attualmente il più geniale, anche se non ha i mezzi degli americani. Parlavamo di film come Star wars: non c’è nel cinema americano qualcuno che sia così inventivo, non hanno l’invenzione visiva e la poesia che c’è in ogni sequenza di Casanova.

 

Anche Kubrick è un “visionario”, a suo modo.

Sì, ma è meno ispirato di Fellini. Kubrick è veramente un ingegnere che esce dal Politecnico. È molto dotato, ma resta un fotografo. e c’è una certa differenza tra fotografia e caricatura: Fellini viene dal disegno, dalla caricatura, fin dall’inizio ha preso l’abitudine di “inventare” dei personaggi; Kubrick li fotografa, e non è la stessa cosa. Penso che ci sia molto più ispirazione e fantasia, e molto più umorismo, in Fellini. È raro avere allo stesso tempo in un’immagine, l’invenzione, la bellezza e l’umorismo: in Fellini ci sono sempre queste tre cose, e questo è formidabile.

 

Tornando al protagonista di L’homme qui aimait les femmes (L’uomo che amava le donne), lei si diverte a trasformarlo in un manichino (sequenza del sogno), proprio come il Casanova felliniano…

Bertrand Morane però preferisce sedurre le donne in modo indiretto. Non vuole abbordare una donna per strada dicendo «le andrebbe di venire a bere qualcosa?», preferisce prendere il numero della targa. La conquista gli interessa solo se è indiretta, e complicata. Il Casanova di Fellini, invece, è uno che colleziona donne come uno sportivo colleziona vittorie, si interessa esclusivamente ai record. È questo aspetto di recordman che Fellini stigmatizza nel suo film. È proprio in questa dimensione che Fellini lo prende in giro, questo è vero. Lei mi fa l’onore di paragonarmi a Fellini, la ringrazio, ma io mi trovo molto terra terra in confronto a Fellini che è davvero un poeta. Io ho girato in ambienti reali, il mio film non ha la ricchezza visiva di quello di Fellini girato in studio, un sogno. Tutto nel Casanova mi emoziona, anche il mare di plastica (una prima volta utilizza l’acqua di una piscina perché c’è una testa gigantesca che deve emergere, poi usa la tela cerata). Mi vengono le lacrime agli occhi quando vedo questo, perché è un modo di ritornare davvero alle ragioni per cui il cinema è stato inventato: il cinema non è stato inventato per fotografare il sole alle cinque del pomeriggio… Fellini era già in potenza così sin dall’inizio: quando si guardano i suoi primi film “poveri”, girati quando non aveva soldi, sapeva già che l’artificio è migliore della realtà, per questo faceva in modo di girare la notte (le passeggiate dei vitelloni, anche nel Bidone ci sono molte scene notturne). Fin da allora andava in questa direzione; adesso ricostruisce in studio interi paesi come in Amarcord, e ha ragione soprattutto ora che il cinema è a colori. Oggi mi rendo conto di una cosa: girare nei posti reali era una piccola conquista della Nouvelle Vague valida per alcuni anni, prima dell’arrivo del colore, e in reazione ai film del tempo; ma oggi di nuovo si sa che l’arte si ricrea in studio: se si vuole ottenere qualcosa di artistico bisogna tornare allo studio, se no si ha solo una vaga realtà deformata.

Nei film in costume di Visconti, per esempio, c’è qualcosa di molto coerente, finché i personaggi rimangono tra le quattro pareti di una casa; ma appena aprono la porta e vanno in giardino, a mio parere si perde tutta la credibilità che avevano quando venivano ripresi in interni d’epoca. Mentre è normale che persone del Settecento vengano riprese in palazzi del Settecento, quando escono in un parco vero, sotto il sole reale, la scena perde credibilità, diventa ridicola. Visconti non ha capito che le due cose non si possono mescolare. Invece in Morte a Venezia tutto va alla perfezione perché il cielo nel film è molto scuro, e poi Venezia è una città che somiglia ad una scenografia teatrale, c’è quindi una sorta d’armonia. Mi piace molto Morte a Venezia, ma gli altri film in costume e a colori di Visconti non mi piacciono proprio per questo: perché smetto di crederci ogni volta che i personaggi escono all’aperto. Fellini ha ragione di ricostruire in studio anche gli esterni, di ricreare cioè gli esterni in interni.

 

Antonioni si nasconde dietro a un personaggio femminile. Qualcosa di simile accade anche nei suoi film, o sbaglio?

È vero per Antonioni, nei suoi film le donne sono formidabili, sono il meglio. Ma è vero per molti, anche per Polanski, ad esempio. La ragazza inseguita, perseguitata, che ha paura (la ritroviamo almeno in cinque suoi film) è un autoritratto di Roman, ne sono sicuro. Polanski è uno che  nasconde le sue paure dietro un falso cinismo, e con le donne lavora al meglio. I registi che mi interessano di più sono quelli che trovo più femminili, in altre parole ciò che mi interessa di più in un cineasta è la componente femminile. (Non c’è molta femminilità in Rossellini, è quasi più interessante come uomo che come artista.) Non è facile definire la femminilità. Personalmente trovo molta femminilità in Welles, anche se nei suoi film gli uomini sono più interessanti delle donne, ma non so perché penso sia al contempo molto femminile, non so come spiegarlo. Non mi sento attratto da un Rosi perché sento i suoi film, come dire, troppo mascolini, mentre sono molto sedotto da Bergman… Anche Bertolucci lavora bene con le donne, penso alle due magnifiche attrici del Conformista, la Sanda e la Sandrelli.

 

Lei ha diretto (e amato) le due sorelle “Dorléac”, Françoise e Catherine (Deneuve).

Sono certo che il pubblico oggi avrebbe certamente accolto meglio Françoise Dorléac di quanto fece all’epoca. Era un’attrice molto estroversa, quasi stravagante, un po’ alla Kay Kendall. Catherine invece è l’opposto, è l’immobilità, il mistero. C’è in lei una specie di duplice vita, cioè, oltre al personaggio che interpreta, c’è tutto quello che lo spettatore immagina in più. Catherine suggerisce una vita segreta… Questo tipo di donne fa sognare. Catherine ricorda Gene Tierney, anche lei non si muoveva quasi, ma quale straordinario mistero. I loro occhi esprimono molto di più di qualunque dialogo.

 

Julie Christie? Jacqueline Bisset?

Fanno parte delle “inglesi”. Le attrici inglesi le amo molto anche nella vita come donne. Hanno avuto un’educazione particolare, rigida ma intelligente, che dà loro una solidità formidabile. Sono di una gentilezza squisita, di un’onestà, di una franchezza nel rapporto con gli uomini, straordinarie. Sono dolci con gli anziani, hanno un contatto facile e diretto con tutti, rimanendo sempre molto femminili; ti fanno delle domande anche molto brutali ed esigono risposte brutali e chiare. Ho lavorato con quattro attrici inglesi e posso dire che il loro punto in comune era proprio questo.

 

Se dovesse dirigere un’attrice italiana, quale sceglierebbe?

Sicuramente la Sandrelli, trovo che sia la più passionale. La trovo formidabile fin dall’inizio, da quando ha debuttato con Germi; ero capace di andare a vedere un film anche brutto se c’era lei, e questo mi capita di rado. Ciò detto non conosco bene le attrici italiane, l’Italia è piuttosto il paese degli attori maschi, mi pare.

 


Cinema americano

 

Lei ha sempre mostrato un’enorme simpatia verso registi come Hawks, Lubitsch, Chaplin, Welles… Ha scoperto qualcosa di nuovo sul cinema americano lavorando come attore in Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg?

Continuo a pensare che per i film intimisti, per i film di sentimenti, gli europei sono più bravi. Non si può discutere di scene d’amore seduti intorno al tavolo di un consiglio d’amministrazione. La produzione americana continua a basarsi troppo sulla ricerca di effetti, di sensazioni forti; vogliono fare paura a tutti costi, fanno venire la gente in sala per farle provare degli shock fisici. Io preferisco gli shock morali, mentali… Come Woody Allen, che non a caso è chiaramente influenzato dal cinema europeo: Bergman, Fellini.

 

Cosa pensa oggi [1977] di questa nuova generazione di cineasti americani?

Lucas, Spielberg, sono una banda; Coppola è un po’ il capo scuola perché è il più intellettuale della famiglia. questi giovani adorano il cinema muto e i vecchi registi (sono grandi ammiratori di Hitchcock, mentre la generazione precedente lo guardava con diffidenza), e cercano un po’ di ricollegarsi al passato… Si dice sempre che il cinema sonoro è venuto troppo presto, cioè in un momento in cui i cineasti del muto si stavano perfezionando molto; poi di colpo il sonoro ha troncato queste ricerche visive, ci si accontentò pigramente di riprendere gli spettacoli di Broadway e di filmarli alla carlona. La generazione del muto era molto dotata tecnicamente (Hawks, Hitchcock, Ford, Capra); poi c’è stata una generazione venuta da Broadway, registi specialisti degli attori ma poco dotati tecnicamente. Con questa nuova generazione che chiamerei “visiva” si ritorna un po’ all’antico. Spielberg pensa per immagini, “vede” la scena, installa tre macchine da presa al posto giusto, è bravissimo anche al montaggio. In fondo si riallaccia alla tradizione del muto.

 

Anche la Francia si lascia invadere dall’America?

Non si possono fare certi confronti, come quello tra il cinema francese e il cinema americano. Il cinema americano rappresenta un intero continente, come tale lo si può comparare solo con il cinema “europeo”, cioè con la cinematografia di un altro continente… Lasciando da parte il caso Francia, direi che oggi [1980] il cinema europeo è migliore di quello americano. Film magnifici come Casanova, Il matrimonio di Maria Braun, gli americani non li sanno fare oggi. Insomma in America, oggi, ci sono dei registi che imitano Fellini, ma non c’è Fellini.

 

In America non c’è un Tarkovski…

Non ho visto Stalker… Trovo però Tarkovski un po’ freddo, un po’ scientifico… Ciò detto io rifiuto sempre di parlare in termini generali. Dire che quest’anno il cinema francese va meglio è una banalità, come dire «quest’anno gli arabi sono meno pigri, i negri sono diventati più intelligenti…». Martin Luther King e Amin Dada erano entrambi neri, eppure… Secondo me il razzismo inizia con le generalizzazioni.

 

 

Le altre due parti dell’intervista:

“François Truffaut, professione cinema” (1)

“François Truffaut, professione cinema” (2)

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