Carmelo Bene, Lo (S)Concerto della Morte

Affermava di non essere mai nato Carmelo Bene. E quindi, come ha ricordato Enrico Ghezzi, non si può dire che sia morto. Il suo cinema non descrive, non racconta, si limita ad esibire un’immagine ricca, composita, variegata, metafilmica, che non assomiglia a nient’altro. Ad esibire l’invisibile. E Bene è stato il più grande cultore dell’invisibile

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Affermava di non essere mai nato Carmelo Bene. E quindi, come ha ricordato Enrico Ghezzi in occasione dell’improvvisa morte del grande mai-natoBene, non si può dire che sia morto. Eppure la perentorietà decisiva della notizia ci ha colti un po’ tutti di sorpresa. Non tanto per un fatto di indecisione nell’accettare la dipartita di uno di quegli uomini che non hanno fatto Spettacolo, ma che sono Spettacolo, quanto per un sentimento di lieve imbarazzo nell’accostare una formula così finalistica ad un corpo da sempre sfuggente. Un corpo mai risolto nel suo apparire quale portatore di un sentimento di aperta ritrosia ad accettare un reale, una scena, un topos drammaturgico da rispettare. L’innovazione apportata da Bene nelle scene del teatro italiano è stata a dir poco fulminante. Nacque a Lecce nel 1937 e debuttò con “Caligola” di Camus. Ma è nei primi anni ‘60 che, con Spettacolo Majakovskij e Pinocchio, cominciò ad affermarsi sulla scena nazionale, contaminando la scena teatrale con umori che, da una parte provenivano dal sublime teatro della crudeltà di Artaud, ma che dall’altra già si affermavano come porzioni incandescenti di una personalità che graffiava l’impianto spettacolare con una dose di rutilante passione anticonformista. Nasce in questo modo il suo sodalizio con Lydia Mancinelli e l’ingresso di Bene all’interno di quello che è il cosiddetto teatro ufficiale con “La cena delle beffe” e S.A.D.E. Nella seconda metà degli anni ’70 vengono fuori i suoi spettacoli più originali, più creativi, quelli in cui Gilles Deleuze intravide l’ombra del genio. Si tratta della rivisitazione di opere shakesperiane come “Romeo e Giulietta” e “Amleto”. Il suo è un teatro che, per parafrasare Copeau, appare sempre più fuori dal teatro. Si tratta di rappresentazioni che configurano nel cuore della scena un assetto orgiastico, un andamento sinusoidale, un ritmo interno/esterno rispetto al testo preso in considerazione. Negli ultimi anni aveva riportato sulla scena il suo vecchio progetto del Pinocchio (trasmesso poi peraltro tre anni fa in seconda serata da Rai Due) e soprattutto l’indimenticabile (s)Concerto di Achille nel quale ha portato la sua arte in un luogo di perfetta non intellegibilità tanto è apparsa distante, rarefatta, preziosa.

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E’ stato il più grande cultore dell’invisibile Carmelo Bene. E già che dai suoi spettacoli trapelava tutto il contrario. Un caleidoscopio impazzito e rutilante di colori, di umori sanguigni che si accavallano sul tessuto della scena rincorrendo un senso trovabile solo attraverso la sovraesposizione visiva di una struttura sull’altra. Eppure, sembrerà paradossale, ma i suoi spettacoli, unico in questo tra tutti i teatranti italiani, apparivano alla fine dotati di un senso delle cose quasi scarno, asciutto, sobrio. L’occhio si sbaglia, l’apparenza del visibile sotto forma di lirismo cromatico infuocato è un trompe-l’oeil che certo non aiuta la comprensione immediata dell’assunto fondante la rappresentazione. Il punto è proprio questo. Non possiamo affermare con tutta sicurezza che Bene abbia prodotto rappresentazioni teatrali. La rappresentazione sottintende sempre il palesarsi di un certo dato sensibile sotto forma di preciso movimento simbolico delle parti in gioco, mentre quello di Bene è un palesarsi della forma finzionale che non ha nulla di rappresentativo, in funzione di qualcosa. E’ sublime gratuità della scena che riproduce se stessa, avvalorando l’ipotesi di una sua possibile traslazione in un territorio dell’invisibile da cui escludere ogni occhiata furtiva. Praticare il visibile per trasformarlo nel suo contrario. La scena bisogna costruirla con cura, e affollarla poi di tanti piccoli ostacoli alla visione sotto forma di luci, triangolazioni ossessive delle linee compositive, spostamenti impercettibili dell’asse focale. Ma è poi necessario destrutturarla la scena, abbatterla, renderla neutrale. E’ solo scavando sino al limite che il sostrato ontologico stesso del palesarsi all’occhio potrà esser penetrato. Il famoso narcisismo di Bene lo portava in questo senso a monopolizzare i suoi spettacoli o attraverso il corpo (presenza chiara sul palcoscenico) o anche attraverso la voce (da dietro le quinte, per esorcizzare un’assenza tramite una presenza posticcia di una certa fonte sonora), ma per quanto ci riguarda la sua è la forma di narcisismo dell’esserci che preferiamo, la più pura, la sola in grado di tramutarsi in originale affermazione di una presenza centrale dello spettacolo. Ma non solo in esso. Anche e forse soprattutto nella sua lenta metastasi che abbiamo precedentemente descritto quale vera e propria sparizione della scena. Corpo/scena dunque. In Bene questo binomio veniva continuamente sciolto in aderenza di un termine all’altro, in simbiosi perfetta che non conosceva alcun tipo di sdoppiamento. Se l’invisibilità era sempre dietro un angolo, beh, la stessa sorte toccava al corpo del suo demiurgo, accarezzato da una presenzialità totalizzante pronta ad eclissarsi in ogni momento in rarefazione programmata del sensibile stesso. Basti pensare al suo geniale Pinocchio, osceno miscuglio di arroganza verbale e di innocenza dialettica, di anticonformismo velato e provocatoria presa di coscienza di un sé lontano anni luce da ogni proditorio svelamento superficiale del corpo. Centrale a questo proposito il valore profetico, affabulatorio, evocativo, della parola, accarezzata quale unica possibilità di scavalcamento in corsa della materialità asfittica del movimento. In questo senso Bene va calato all’interno della grande rivoluzione teatrale della seconda metà del Novecento che, a partire da Grotowski e dal suo “Per un teatro povero”, ha messo in atto una radicale presa di posizione nei confronti di un certo teatro istituzionale, oltrepassandolo all’insegna del continuo giocare con i tempi stessi della rappresentazione. Quella di Bene è stata però un’innovazione dello spettacolo tradizionale che lo ha portato a confrontarsi anche con il cinema. Sono relativamente pochi i suoi film (circa sei), il primo “Nostra signora del Turchi, datato 1968. Non si tratta nemmeno più di cinema. Si parla di pura visione di ombre in movimento, radiografata attraverso una perlustrazione delocalizzata rispetto ad ogni tipo di funzionalità descrittiva. Il cinema di Bene non descrive, non racconta, si limita ad esibire. Il testo di partenza è lì, accarezzato dai secoli trascorsi (si parla delle opere tratte da Shakespeare come Un Amleto di meno), ma Bene va regolarmente otre il testo scritto. Gli interessa materializzare sullo schermo una visione che sia lontana anni luce da ogni falso sperimentalismo e da ogni manierismo del tratto. La sua è un’immagine ricca, composita, variegata, metafilmica, che non assomiglia a nient’altro. Un po’ come il suo cinema, e soprattutto come il suo teatro. Destinato a restare intrappolato nell’eternità di un movimento che non si concluderà mai.

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