MANGA/ANIME – Ryu il ragazzo delle caverne

Ryu il ragazzo delle caverne

Autentico titolo-cerniera fra l'urgenza drammatica delle serie realizzate nei Sessanta e la cura dei dettagli dei titoli dei Settanta: alla riscoperta di un classico dimenticato, nato dalla penna del maestro Shotaro Ishinomori e diventato una serie di grande qualità visiva grazie alla Toei Doga

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Ryu il ragazzo delle caverneNel trionfo della fantascienza che, alla fine degli anni Settanta, contrassegna la cosiddetta “invasione” degli anime giapponesi, una serie come Ryu il ragazzo delle caverne (in originale “Genshi Shonen Ryu”) si pone come elemento dissonante, tanto da non aver ottenuto, negli anni, l'attenzione e la riscoperta che merita. In realtà, stupirà apprendere come la fantascienza sia di casa anche qui: non perché il protagonista si muova in una preistoria storicamente inesatta, con tanto di dinosauri e uomini delle nevi a far da nemici, quanto per il manga originale del maestro Shotaro Ishinomori, da cui la storia è tratta. Nel 1969, infatti, Ishinomori inizia la serializzazione de “La strada di Ryu” (purtroppo distribuito solo parzialmente in Italia, a causa del fallimento dell'editore d/books), dove il giovane Ryu Ishibata, partito nel 2020 in un viaggio spaziale, una volta tornato sulla Terra si ritrova in un mondo ripiombato nel passato e ormai ostile e selvaggio. Come si può notare, è chiara l'influenza dal successo del coevo Il pianeta nelle scimmie, uscito nei cinema appena un anno prima, a testimonianza dell'attenzione di Ishinomori per il contesto fantascientifico dell'epoca.

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Il grande successo dell'opera, spinge la Toei Doga a realizzare una versione animata nel 1971, preludio a una serie di autorevoli collaborazioni che avrebbero visto lo Studio dominare la scena televisiva negli anni Settanta (pensiamo ai futuri titoli tratti dai fumetti di Go Nagai e Leiji Matsumoto). La committenza televisiva, però, impone di eliminare l'elemento futuribile, concentrandosi sulle possibilità offerte dal contesto avventuroso e selvaggio. Lo stesso Ishinomori fa buon viso a cattivo gioco, e, una volta fissate le linee guida della nuova storia, realizza una seconda versione a fumetti (che, per fortuna, in Italia è stata distribuita integralmente), coerente con la versione televisiva, ma che ripropone l'elemento fantascientifico nel finale, come a ribadire la personale visione d'autore. Alla fine Ryu conoscerà anche un terzo arco narrativo, “Bancho Wakusei” (annunciato da noi come “Il mondo di Ryu” e mai distribuito), formando in tal modo un trittico, indipendente nelle singole parti, ma accomunato dalla coerenza tematica ed espressiva, solo distribuita su linee temporali diverse, e in grado perciò di definire la magniloquenza della visione di Ishinomori: “La strada di Ryu”, quindi, rappresenta il futuro, “Ryu il ragazzo delle caverne” il passato e “Il mondo di Ryu” il presente.

 

La storia vede l'eponimo protagonista strappato alla madre in tenerissima età: la pelle bianca lo rende infatti inviso agli uomini della sua tribù, che lo considerano un portatore di sventura, e scelgono perciò di sacrificarlo al mostruoso T-Rex guercio Tirano. Salvato dalla morte, Ryu viene allevato fino alla maturità dalla scimmia Kitty, e, dopo la sua scomparsa, decide di intraprendere un viaggio per ricongiungersi alla madre che pure non conosce. Lungo la strada incontra la giovane Ran (che diventerà la sua compagna) e il di lei fratellino Don. Il viaggio sarà costellato di pericoli, nemici ricorrenti, l'ombra perenne del razzismo nei confronti del ragazzo bianco, e da frequenti scontri con l'indomito Tirano, autentica nemesi del protagonista. Pochi elementi che da soli bastano a mettere in evidenza alcune caratteristiche tipiche dei racconti seriali dell'epoca: la natura di orfano che spinge a un lungo viaggio per il ricongiungimento con il genitore (si pensi, negli stessi anni a Remì o L'ape Magà), il razzismo (due anni dopo anche in Sam il ragazzo del west) e soprattutto l'identità come concetto legato non tanto e non solo ai meri legami di sangue, quanto a una condivisione di valori.

 

Uso espressivo dei fondali Ryu e l'importanza degli affettiSe, infatti, il produttore Kenji Yokoyama preme per risvolti melodrammatici che esaltano il filo dei legami parentali (quelli fra Ryu e la madre e fra Ran e Don), d'altra parte va considerato come il vero elemento unificante dei protagonisti è quello dato dalle reciproche promesse di un destino comune: che può essere, per l'appunto, quello di proseguire il viaggio insieme, ma anche quello di eliminare la minaccia costituita da Tirano, che finisce per legare Ryu al coriaceo avventuriero Kiba. Emerge in questo modo una natura idealistica ed etica che, nel gioco delle dispersioni d'identità del Giappone successivo al boom, ritaglia uno spessore umano in grado di definire il proprio rapporto con il mondo, esaltando un concetto di famiglia non necessariamente legato all'unione amorosa. Dall'altro versante, infatti, si pone il cieco razzismo degli umani che Ryu incrocia, simboleggiato da Taka, che non smette di dare la caccia al protagonista nonostante la promessa fatta al fratello.

 

In questo modo, il personaggio riesce a distinguersi dai nemici proprio in virtù dei legami che è stato in grado di costruire. La serie oscilla perciò fra la continua formazione di affetti e le pulsioni irrazionali e distruttive tipiche dell'animo umano, in un perenne dualismo che spinge i protagonisti a continui sacrifici (immancabili nelle serie dell'epoca), che mettono alla prova la forza del gruppo e della missione: la foga con cui Ryu cerca la madre si stempera quindi nella dedizione di Ran, che della “famiglia” è la figura più equilibrata e impedisce perciò al protagonista di scivolare nei territori dell'ossessione più irrazionale, mentre la brutalità degli scontri con uomini e belve si riequilibra nella selvaggia bellezza delle immagini. A rivederlo oggi, infatti, Ryu il ragazzo delle caverne si pone come un autentico titolo-cerniera fra l'urgenza drammatica delle serie realizzate nei Sessanta con il tipico tratto sporco, le scene di cruento realismo e le figure nervosamente agili (il cast tecnico è lo stesso de L'Uomo Tigre), e la cura dei dettagli dei titoli dei Settanta (si pensi a opere come Jeeg Robot): a fare la differenza, in particolare, sono i magnifici fondali a olio di Mataharu Urata che rompono con la tradizione dell'acquerello e conferiscono alla serie una qualità pittorica.

 

Uso espressivo dei fondali Ryu e le pulsioni violente del razzismoI sentimenti contrastanti del plot vengono in tal modo esaltati da uno scenario straordinariamente materico, in cui l'occhio può perdersi ammirato, e che alla bisogna sa diventare autentica emanazione espressiva degli stati d'animo dei protagonisti, con vaghi accenni psichedelici nell'uso dei rossi e in soluzioni visive originali: pur non raggiungendo i picchi virtuosistici del già citato L'Uomo Tigre, lo staff sperimenta infatti inquadrature dai tagli non convenzionali, a volte sacrificando intelligentemente la mobilità delle figure, per esaltare la forza dei colori, dei suoni, del montaggio e delle panoramiche, con un effetto che è un'autentica vertigine sensoriale. Se la storia non raggiunge la compattezza della versione cartacea, la serie si staglia in ogni caso per la sua capacità di ragionare per immagini: un'attitudine sottolineata anche da un uso molto attento dei dialoghi – nell'edizione italiana spesso aumentati per esplicare i concetti del caso, anche dove non richiesto. Un approccio che, insieme alla breve durata di 22 puntate (imposta dallo scarso successo, ma in realtà funzionale a non disperdere le varie sottotrame), eleva il tutto al meritato rango di un classico.

 

Trasmesso in Italia per la prima volta nel 1979, Ryu il ragazzo delle caverne è stato raccolto in DVD nel 2010 da Yamato Video, in un'edizione forte di un ottimo restauro video e di un booklet ricco di informazioni sulla genesi della serie, che permette a chiunque di riscoprire la storia al meglio.

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