L'amore come una dolce morte: "Dolls", di Takeshi Kitano

Kitano spoglia il suo film di ogni ironia, rinchiude le sue "marionette" dentro paesaggi avvolgenti e costumi abbaglianti, spingendo oltre ogni limite la sua riflessione sul "trattare la morte" come "qualcosa che si può scegliere", al contrario della vita. Una dolce morte sublime, di corpi abbandonati dai sentimenti, vaganti come anime sommerse

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DollsMalattie e senso di morte sembrano essere state le tematiche ricorrenti dei film dell'ultimo Festival di Venezia. Come se dalle parti estreme del mondo ci fosse comunque la necessità di confrontarsi e scontarsi con il "male di vivere" e la paura/necessità della morte. Sul confine tra malattia e morte hanno infatti "giocato" amabilmente i film della Holland (Julie Walking Home), Eastwood (Blood work), Michele Placido (Un viaggio chiamato amore), Tsukamoto (A snake of June), Chang Tso-Chi (The best of Times), Kathryn Bigelow (K-19), Julie Taymor (Frida), e Takeshi Kitano, da sempre appassionato dal tema (ricordate Hana Bi?) vi si è gettato con tutto il corpo di cineasta, lasciando per una volta fuori quello, ingombrante, di attore. 

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Dolls è infatti diretto da Kitano ma non interpretato da "Beat" Takeshi, come a voler liberare lo schermo da una figura troppo caratterizzata e riconoscibile, per lanciare un cinema che si espande in una cromaticità assoluta, dipanandosi tra le stagioni dell'amore e della morte. Lo spunto è il teatro Bunraku, quelle incredibili marionette animate da tre persone che costituiscono una delle principali forme del teatro classico giapponese. Kitano costruisce però il film sulle delle "marionette umane", fondendo assieme tre diverse storie di amore, di perdita di sé, di smaterializzazione della coscienza, di corpi che si ritrovano a vagare nello spazio (della vita). Matsumoto e Sawako, un tempo coppia  felice, ora distrutta dall'ingerenza delle famiglie e dalle scelte (obbligate?) di Matsumoto. Abbandonata dal ragazzo la ragazza si lascia andare, tenta il suicidio e solo allora Matsumoto lascia il suo matrimonio di convenienza per iniziare a deambulare per il mondo con la ragazza ormai persa in un "sonno della ragione". Sono i "vagabondi legati", che con dei costumi vistosi e originali camminano legati da un cordone rosso che li unisce per sempre. Hiro è invece un vecchio boss yakuza, che da giovane ha abbandonato la ragazza che, dopo tanti anni, ancora lo aspetta ogni giorno su di una panchina al parco con il pranzo. Haruna invece è una pop star che si è ritirata giovanissima dalle scene dopo che un incidente le ha sfregiato il viso, ma Nakui, il suo ammiratore più devoto, è disposto a tutto per provargli il suo amore…


Tre storie di perdita, di abbandoni, di follie d'amore. Immerse nel circolo delle stagioni che, dai ciliegi in fiore fino alle prime abbondanti nevi, rinchiudono i protagonisti in un vortice esistenziale, dove i corpi sono malati dentro, malati d'amore, e rincorrono la morte con la passione mai sopita dei loro desideri infranti. Kitano spoglia il suo film di ogni ironia e divertimento, rinchiude le sue "marionette" dentro paesaggi avvolgenti e costumi abbaglianti, spingendo oltre ogni limite la sua riflessione sul "trattare la morte" come "qualcosa che si può scegliere", al contrario della vita. Una dolce morte sublime, quella di corpi abbandonati dai sentimenti, vaganti come anime sommerse in un mondo che ormai non li contiene più. Astratto, autunnale, coloratissimo (e nostalgico, poetico e affascinante), Dolls è un respiro profondo, dentro le quattro stagioni del Giappone, malinconico e sensibile, vulnerabile e a volte noioso (cioè "vero") come tutte le persone che amiamo.

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