"Prendimi l'anima", di Roberto Faenza

Quello di Faenza è un cinema arretrato culturalmente, lontano mille miglia dal produrre uno sguardo in grado di essere e di restare nell'orizzonte abitativo del Reale odierno

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E' un cinema vecchio quello di Faenza. E per vecchio non intendiamo certo l'anacronismo programmatico che si respira nelle sue opere, ma una questione ben più importante. Si tratta di un cinema arretrato culturalmente, lontano mille miglia dal produrre uno sguardo in grado di essere e di restare nell'orizzonte abitativo del Reale odierno, un cinema per primi della classe che vogliono sempre avere l'ultima parola. Dunque ambizioso, indisponente, lontano mille miglia da quello che cerchiamo nel riflesso luminoso del grande schermo. Con Prendimi l'anima, Faenza, addirittura più del suo solito, alza il tiro, parla di psicoanalisi, di Amore, di Storia, paralizzando però ogni possibile progress del suo cinema, trincerato per bene nelle retrovie mummificate della didascalia a tutti i costi, e, difetto ben più grave, del raggelamento chirurgico di ogni esprit considerato. Ci narra la storia dell'amore tra Sabina Spielrein e Carl Gustav Jung, del loro rapporto prima professionale, poi sempre più forte e passionale, per non parlare del carteggio a tre con Freud (Sabina nel frattempo diventa, da paziente e amante di Jung, addirittura ispiratrice segreta dell'inventore della psicoanalisi), per poi sfociare nella lezioncina di storia in cui si parla del comunismo, del regime staliniano, e così via. Sulla carta Faenza sembrerebbe voler prendere in esame alcuni tempi fondamentali del secolo passato, ma come abbiamo già detto, manca della giusta umiltà (o forse sconsideratezza) per farlo. Non abbiamo bisogno di certezze, certo non le cerchiamo nel cinema. Vogliamo essere messi in discussione, con tutto il nostro corpo, la nostra anima forse. Faenza invece ci asseconda, ci tratta da spettatori imbelli buoni da vezzeggiare con trucchetti da due soldi, ci fa sedere sull'orlo dell'abisso di un secolo già lontano e, bacchetta in mano, ci mostra un incrocio di passioni e ricerche da pelle d'oca per quanto sono false, lontane dalla vita, buone forse per chi pensa ancora che il cinema si riduca al compitino ben fatto senza sbavature, dominato da una ferrea logica interna capace di risolvere la questione a tavolino, addirittura prima dei titoli di testa. E' questa l'impressione che abbiamo davanti ad un cinema fermo su se stesso, incapace di procedere, avvitato su premesse (il ritorno su Feud virato però su nuove prospettive d'approccio) che ne sanciscono l'unica ragione d'essere alla visione. Non vogliamo entrare nel merito della pertinenza con cui il regista ha trattato il tema psicoanalitico, d'altronde stiamo al cinema, non in una noiosissima lezione universitaria, ma abbiamo il dovere dello sdegno di fronte ad un cinema in assenza di corpo, capace soltanto di produrre una pericolosissima letargia dei sensi, della percezione. Dello spirito.

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Regia: Roberto Faenza
Sceneggiatura: Roberto Faenza liberamente ispirata a "Diario di una segreta simmetria" di Aldo Carotenuto
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Massimo Fiocchi
Musiche: Andrea Guerra
Scenografie: Giantito Burchiellaro
Costumi: Francesca Sartori
Interpreti: Emilia Fox (Sabina Spielrein), Iain Glen (Jung), Craig Ferguson (Fraser), Caroline Ducey (Marie), Jane Alexander (Emma Jung), Michele Melega (Pawel), Daria Galluccio (Renate), Joanna David (madre di Sabina)
Produzione: Elda Ferri per Jean Vigo' Italia/Les Films du centaure/Cowboys Films
Distribuzione: Medusa
Durata: 102'
Origine: Italia, 2002

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