The Warriors in the Streets of Fire: "Gangs of New York"

Scorsese mette in scena l'archeologia della New York del presente, scaraventandoci dentro i sotterranei dei quartieri popolari di una città che non c'è più (gli americani non hanno la stessa nostra idea di archeologia e preferiscono ricostruire il mondo attraverso il cinema…), in un sottomondo fin troppo esplicita metafora del crimine odierno
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"Siamo NOI il popolo degli Stati Uniti", grida Bill il macellaio/ Daniel Day Lewis. E sarebbe fin troppo facile identificare "gli americani" come un popolo di macellai… Ma Scorsese (e l'America) è qualcosa di un po' più complesso delle semplificazioni nostrane. E l'America è si quella dello sterminio degli indiani, dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki e del Vietnam, ma è anche quella della libertà come assioma, della prima rivoluzione democratica e quella – come disse poco tempo fa un ex funzionario della C.I.A. – che ha posto fine a una serie interminabile di guerre nella nostra "civilissima " Europa… Peccato che il funzionario nel raccontare un'enorme verità lanciasse una fantastica "religione" assoluta, quella della Democrazia imposta: l'abbiamo imposta all'Europa,  riusciremo ad imporla anche nei paesi orientali…

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E' sempre un guazzabuglio infernale parlare di America e di americani, e Martin Scorsese, con le sue così evidenti e conosciute origini italiane, trova nel melting -pot americano, nella lotta sanguinosa per affermarlo, una delle ragioni essenziali della sua idea dell'America. Terra di speranza, di libertà e di illusioni. Terra dove 150 anni fa arrivavano dall'Europa migliaia di disperati, carichi di pochi beni e molta voglia di cambiare le proprie prospettive di vita, desiderosi solo di costruirsi un FUTURO.

Pensate New York nel 1800 ha solo 60.000 abitanti. 55 anni dopo ne ha 800.000!!! Un vero assalto, un'autentica invasione. Per questo nel 1834 i "Nativi Americani" si costituiscono come Partito politico, dando una facciata istituzionale alla loro essenza di "banda urbana".  Da un lato i "veri" nativi americani venivano quotidianamente sterminati, dall'altro qualcuno si prendeva il diritto di ricacciare indietro chi arrivava come loro dal vecchio continente, solo con un po' di ritardo.  E' il conflitto di sempre tra il vecchio e il nuovo,  lo conosciamo bene qui da noi con gli extracomunitari, no? Pensate che in quegli anni arrivavano anche 15.000 irlandesi in una sola settimana! E New York si trasformò, complice la Guerra Civile che già infiammava il Paese, in un vero e proprio calderone, una bomba pronta ad esplodere da un momento all'altro. E così avvenne. Scorsese in Gangs of New York ci racconta tutto questo, ovvero gli anni e i giorni che precedettero  i cosiddetti "Drafts Riots", la rivolta popolare che seguì la prima chiamata di leva obbligatoria istituita dall'allora presidente Lincoln per combattere la Confederazione del Sud. Ma quello che fece infuriare la popolazione fu il fatto che con 300 dollari si poteva venire esonerati dalla leva obbligatoria, cosa che si potevano permettere solo le classi agiate della città.

Gangs of New York parte da uno scontro e finisce, circolarmente, con un altro scontro, che colloca nel pieno dei "Drafts Riots". Inizio e finale del film sono folgoranti, siamo immediatamente scaraventati dentro i sotterranei dei quartieri popolari della New York che non c'è più (gli americani non hanno la stessa nostra idea di archeologia e preferiscono ricostruire il mondo attraverso il cinema…), dove un nugolo di uomini e donne, comandati da un integerrimo prete irlandese, si dirige ai "Five Points", punto di incontro/scontro dei "conigli morti", in perenne conflitto con i rivali "nativi". Per le sporche e luride strade della città vediamo arrivare questi brutti ceffi da ogni vicolo, con le loro divise e con le armi in pugno (niente pistole e fucili però, sono "uomini d'onore"). Lo scenario è quello de I guerrieri della notte esattamente un secolo prima, e la violenza (di cui fu accusato di fare elegia a suo tempo già lo stesso Walter Hill) è qui una "necessità", una forma di vita obbligata, senza la quale non sopravvivi a te stesso. Scorsese mette in scena l'archeologia della New York del presente, quella ferita ma non abbattuta dall'attacco alle Torri Gemelle (che con una punta di orgoglio Scorsese fa rivivere nel finale del film, quasi un omaggio di chi si occupa da sempre del "restauro" dei film, come se le Twin Towers fossero esse stesso icone cinematografiche da recuperare). E' uno scenario allucinante, quasi un girone dantesco, dove i politici sono incredibilmente corrotti… e il mondo si divide tra chi vive al di fuori della legge (le bande urbane) e chi ne vive al di sopra (i ceti sociali dominanti).  E qui il giovane Amsterdam Vallon (Leonardo Di Caprio), che da bambino ha visto il padre morire in queste battaglie di quartiere, torna da un'infanzia di orfanotrofi e di fughe disperate, con una sola motivazione, quella di vendicare la morte del padre. E tornato a Lower Manhattan trova William Cutting (Daniel Day Lewis), l'assassino del padre, detto "Bill il macellaio", e lentamente ne conquista la fiducia divenendo uno dei suoi più fedeli servitori. Al punto da salvargli persino la vita, e quando un sicario tenta di ucciderlo sarà proprio Amsterdam a salvare Cutting. Ma questo lento insinuarsi nel cuore del nemico – perché proprio di cuore si tratta, poiché Cutting trova in Amsterdam il figlio che avrebbe sempre desiderato – si frantuma in una scellerata scelta (del romanzo? dello sceneggiatore? di Amsterdam?) di far affrontare a tradimento (e goffamente) in pubblico il proprio rivale, il quale era stato anzitempo informato dal tradimento proprio del migliore amico del ragazzo.

Storie di tradimenti, storie di cuori spezzati. E qui la Storia sembra prendere il sopravvento sulle storie. La Guerra Civile porta rivolta e rabbia dentro le viscere della città, e Cutting non ha abbastanza "cuore nero" per uccidere il suo giovane rivale. Lo lascia vivere, come se avesse bisogno di coltivare, a due passi da casa, la sua stessa morte. Forse sono scelte sbagliate delle storie americane, perché sempre devono finire con il figlio che uccide il padre autoritario. Ma alla fine questo gioco maledetto, complice un Daniel Day Lewis che lascia esterrefatti, conduce lo spettatore, paradossalmente, a provare ammirazione, rispetto e persino commozione per uno dei più grandi bastardi mai mostrati sullo schermo, Bill il macellaio, appunto. Crudele, duro e criminale certo, ma pure, in qualche modo, uomo d'onore, non perché non uccide alle spalle ma perché vive di regole chiare, evidenti, non celate. E questa sembra essere una terribile, e forse superbamente veritiera, metafora di una nazione che è nata sul crimine, è sopravvissuta e domina il pianeta imponendo la sua forza con la violenza. Ma anche questa è una semplificazione, e oggi magari possiamo permetterci di scrivere contro l'America anche grazie a quella libertà che loro ci hanno finalmente regalato circa sessant'anni fa. Libertà obbligatoria, come cantava Gaber, forse. E Scorsese ci regala un ritratto della costruzione del mondo attuale visto da un punto di vista inedito ma forse determinante, quello del "buco nero" della Manhattan ottocentesca. La Storia ritorna in quel punto, dove milioni di abitanti vivono oggi, e la Guerra civile è finita. In America. Lo scontro oggi si è trasferito un poco più in là.

 

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