"007, la morte può attendere", di Lee Tamahori

Tamahori non si limita a rifare 007, ma ridefinisce la stessa possibilità di accedere nuovamente alla visione, filmando l'attrito di corpi quasi postumani con leggerezza soave e precisione geometrica.

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In viva morte, viva morte vivo. E' il Giordano Bruno degli Eroici furori che sottende la visione/simulazione astratta dell'ultimo Tamahori, speculazione teorica sul farsi del tempo nello spazio bruciato dal calor bianco della morte. E' questa allora la sospensione dispersiva ed astratta di quest'ultimo, ventesimo, James Bond, interessante oggetto hi-tech da smontare in parti differenziate, mantenendolo però nella precisa linea di fuga in cui (apparentemente) si inscrive. C'è poco da fare, Tamahori non ha perso l'abitudine di non dare mai un corpo per scontato (basti ricordare i suoi tatuati "warriors" della sua opera d'esordio), ma di lavorarlo proprio a forza di rallentamenti, fughe in avanti, depistaggi percettivi tendenti ad una sorta di fuga retrospettica dallo spazio in cui sono immersi. Riprendere in mano Bond (dopo i non esaltanti ultimi episodi della serie) poteva significare due cose: rispettare gli schematismi ormai indotti del genere, oppure portarli sul punto di rottura, facendoli emergere come qualcosa di nuovo. Tamahori fortunatamente si è tenuto nel giusto mezzo, con una cosa da aggiungere però: ha forse prodotto il primo vero sguardo postbondiano (tralasciamo per un attimo quello sublime e mascherato del XXX di Cohen), il chè significa lavorio indefesso sulle carni della visione, quasi a voler tracciare in filigrana una sorta di lunga traiettoria discorsiva che culmini appunto con la ricostruzione di una certa immagine. Tamahori è chiaramente consapevole della natura assolutamente artificiale dell'agente Bond, dell'universo favolistico in cui è immerso, e ancor di più della dimensione resurrezionale in cui si inserisce il suo discorso oggi. Già, consapevole, dunque in grado di giocare sulla morte-in-vita dell'eroe, più che sulla sua epidermica vitalità di longitudini aeree di notevole portata geografica. Spazializzando il percorso di un graduale farsi corpo (le scene iniziali con la ricostruzione della corporatura di Bond), il regista neozelandese non si discosta poi troppo da certi rimaneggiamenti temporali messi intelligentemente in moto da McTiernan e Harlin (certo, il suo Driven in fatto di spazialità interposte a soluzioni di durata incredibili è forse oggi difficilmente superabile), e riesce a scandagliare proprio la dimensione liquida (acquatica in molte sequenze) del moto e a temporalizzarlo sotto l'egida di uno strano ritorno (la Berry che esce fuori dall'acqua, mutata/mutante rispetto alla flagranza originaria della Andress di Dr. No) che pare ripetersi sempre uguale a se stesso. Tamahori non si limita a rifare 007, ma ridefinisce la stessa possibilità di accedere nuovamente alla visione, filmando l'attrito di corpi quasi postumani con leggerezza soave e precisione geometrica, sbilanciando totalmente l'asseto della composizione su di un assetto formale, digerito e ri-elaborato quale vertigine semantica che verticalizza l'intero asse della struttura. Il che significa raccontare la nuova missione di 007 che stavolta deve vedersela con un pericoloso criminale in Corea del Nord, ma anche mostraci l'immagine di uno svolgimento narrativo, desautorandola di ogni valenza logica. Si tratta di elettrizzare l'occhio (non si può non pensare a certi movimenti del Woo di M:I 2 ) e gettarlo su coordinate di non-senso. E capire che la seduzione del design ipertecnologico di oggi, presuppone sempre una certa plusvalenza memorialistica che prima o poi uscirà fuori. Tamahori ne filma la venuta alla luce (lo spostamento su set impensabili, la deriva modernista unita al ricordo younghiano) con un grado di consapevolezza che è gioco con la visione e immersione negli abissi profondi del remake fuori tempo massimo.

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Titolo originale: Die Another Day
Regia: Lee Tamahori
Sceneggiatura: Neal Purvis, Robert Wade dai personaggi di Ian Fleming
Fotografia: David Tattersall
Montaggio: Andrew MacRitchie, Christian Wagner
Musica: David Arnold
Scenografia: Peter Lamont
Costumi: Lindy Hemming
Interpreti: Pierce Brosnan (James Bond), Halle Berry (Jinx), Toby Stephens (Gustav Graves), Rosamund Pike (Miranda Frost), Rick Yune (Zao), Judi Dench (M), John Cleese (Q), Michael Madsen (Damian Falco), Will Yun Lee (colonnello Moon), Kenneth Tsang (Generale Moon)
Produzione: Barbara Broccoli, Michael G. Wilson per Danjaq Productions/Eon Productions Ltd./Metro-Goldwyn Mayer/United Artists
Distribuzione: Twentieth Century Fox
Durata: 132'
Origine: Usa/Gran Bretagna, 2002

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