"Novo", di Jean-Pierre Limosin

Al suo quinto lungometraggio di finzione, Jean-Pierre Limosin torna a ragionare sul binomio attuale/virtuale ma – diversamente che in "Tokyo Eyes", dove ne forniva una configurazione insieme aerea e complessa – si limita ad enunciarne la traccia, ad illustrarne confusamente l'assunto

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L'istante come residuale centro di gravità, l'assenza integrale di concatenazioni, richiami, proiezioni. Negli spazi ipotetici di un presente sovrano, ignaro del prima e del poi, privato della memoria e dunque inedito ad ogni istante, integralmente percorribile, costantemente nuovo, l'identità si definisce proprio mentre si disfa, consiste nel proprio svanire. Al suo quinto lungometraggio di finzione, Jean-Pierre Limosin torna a ragionare sul binomio attuale/virtuale e tuttavia – diversamente che in Tokyo Eyes (1998), dove ne forniva una configurazione insieme aerea e complessa, capace di regolare una lucida riflessione sulla natura stessa dello sguardo – si limita in questo Novo ad enunciarne la traccia, ad illustrarne l'assunto, tratteggiando la singolare vicenda di un personaggio sdoppiato, smemorato dopo un micidiale colpo di Kung Fu (dimentica ogni cosa dopo pochi minuti, affida la propria vita ad un taccuino dove scrive ciò che fa o deve fare), gioiosamente sospeso in un tempo irreale, non coniugabile al passato come al futuro. Pur incaricandosi, come in Tokyo Eyes, di esibire il tragitto che dalla virtualità di un'esistenza separata ed incosciente (la distorta ipertrofia ottica di H., l'eterno presente di Graham/Pablo) conduce al recupero dell'identità ed alla riappropriazione del reale, il racconto si incaglia qui fin da subito (e di fatto oscura la riconoscibilità dell'intero percorso) lungo le linee di un manierato, sovraesposto pseudoerotismo d'insieme, si disperde in getti laterali, precipita in dialoghi astrusi, in strappi surreali (talora involontariamente esilaranti: la "storia del dente"), nelle ridondanze di una insistita gestualità che si compiace dei propri segni vuoti. Proprio come la scrittura di Limosin, che limitandosi a mimare il disegno frammentario, discontinuo in cui si inscrivono l'essere e l'agire di Graham/Pablo, si attarda in artifici graziosi, in chiassose configurazioni audio/visive, senza mai esibire una sola strategia compositiva (fuori dal meccanico, inautentico ritorno dell'atto sessuale, cui è consegnato l'arduo mandato di mettere in cifra l'approccio sempre originario di Graham/Pablo al reale) che espliciti le ragioni, il costrutto, della propria frammentarietà. Ed il corpo, che in Tokyo Eyes sanciva nel dolore, tracciava nella carne, in un solo attonito passaggio, il definitivo ritorno al reale del killer virtuale immerso nei propri prolungamenti ottici, è qui quasi unicamente pensato come ossessiva esposizione di una levigata, armoniosa nudità, tanto fotogenica quanto innocua ed inutile. Nudità che nemmeno un ardito sottofinale, in cui si compie la nascita nuova di Pablo, nudo nel mondo che ha appena ritrovato, è in grado di autenticare. Perduti in questo generale pasticcio, allora, i corpi di Noriega e Mouglalis si azzerano in tratti e movenze da spot, svaniscono in pose artefatte, si fanno definitivamente invisibili. André S. Labarthe è l'uomo del museo.

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Titolo originale: Novo
Regia: Jean-Pierre Limosin
Sceneggiatura: Christophe Honoré, Jean-Pierre Limosin
Fotografia: Julien Hirsch
Montaggio: Cristina Otero Roth
Musica: Kraked, Zend Avesta
Scenografia: Jimmy Vansteenkiste
Costumi: Maripol
Interpreti: Eduardo Noriega (Graham/Pablo), Anna Mouglalis (Irène), Nathalie Richard (Sabine), Eric Caravaca (Fred), Paz Vega (Isabelle), Leny Bueno (Antoine), Julie Gayet (Julie), André S. Labarthe (uomo nel museo)
Produzione: Lumen Films, Alta Produccion, Amka Films Productions
Distribuzione: Bim
Durata: 98'
Origine: Francia/Spagna/Svizzera 2002

 

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