"High Crimes", di Carl Franklin

Franklin è tra quei pochi registi capaci di scavare fra le macerie dei generi classici americani, in cerca di frammenti da ricomporre, di storie che chiedono di essere raccontate ancora una volta, magari con microscopiche oscillazioni di senso, con piccoli ritocchi stilistici capaci di reinventare un'altra Hollywood "nera" e marginale, mai filmata

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Probabilmente guardando le sequenze di High Crimes la prima sensazione è di trovarsi davanti ad uno di quei tipici legal thriller di stampo anti o filomilitaristi che da qualche anno sembrano aver conquistato i produttori hollywoodiani: da Codice d'onore a Music Box passando per un capolavoro come Regole d'onore. Dunque, nulla di nuovo sullo schermo. Ma ben presto, mentre le immagini scorrono, ci si rende conto che questo film più che un pamphlet ad alta tensione è soprattutto un'opera di celluloide firmata da Carl Franklin, antiautore per antonomasia del cinema americano degli anni'90. Regista afroamericano proveniente dalla premiata Factory di Roger Corman, collaboratore di Jonathan Demme ma anche attore e insegnante di cinema all'American Film Institute, Franklin è uno di quei pochi registi ancora capaci di scavare fra le macerie  dei "generi" classici della tradizione americana, rovistando fra quei fotogrammi in cerca di frammenti da ricomporre, di storie che chiedono di essere raccontate ancora una volta, magari con microscopiche oscillazioni di senso, con quei piccoli ritocchi stilistici capaci di reinventare un'altra Hollywood "nera" e marginale, sconfitta e mai filmata.

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Tutti i film di Franklin muovono da questo desiderio intimo e "politico", dalla necessità di confrontarsi e riscrivere quel pazzo manuale di storia americana compilato dalle immagini degli Studios californiani. Così, se Spike Lee o un regista radicale come John Singleton (ma il suo Shaft  ha il vago sapore di un'operazione frankliniana…) preferiscono puntare dritto su un cinema "comunitario" e sociale capace di costruire un altro sguardo sul presente, l'operazione di Franklin è squisitamente cinematografica, è un grande esempio di riscrittura di un immaginario collettivo attraverso schegge di celluloide che si piantano nel cuore della macchina dei sogni hollywoodiana facendola vibrare di corpi e segni di una cultura "nera" che trova proprio nell'integrazione e nella "normalità" (in tutti i sensi anche quella negativa o criminale) la sua cifra eversiva. Abitano questo spazio narrativo il Philip Marlowe di colore Denzel Washington de Il diavolo in blu o la splendida Cynda Williams di Qualcuno sta per morire, sottovalutatissimo e straordinario thriller scritto da Franklin in collaborazione con Billy Bob Thornton, o ancora, e ultimo solo cronologicamente, l'avvocato protagonista di High Crimes che ha le rughe e lo sguardo sornione di Morgan Freeman.

Tutti corpi creatori di senso, nuovi eroi di una mitologia all black ancora da riscoprire perché lontana mille miglia dalla tradizione e dalle tinte forti della blaxploitation e interamente racchiusa nell'involucro stilistico del miglior cinema americano. Come testimoniano il rigore e l'ordine formale delle inquadrature, le sincronie e le diacronie perfette del montaggio di High Crimes, Franklin è un inventore di superfici filmiche, un artista "neoclassico" che ama sporcare le sue riproduzioni con macchie di pelle ed innesti di carne. Un grande autore che nella perfetta ripetizione delle forme ha imparato a mostrare la differenza dei corpi.

Tit. or.: id.


Regia: Carl Franklin


Sceneggiatura: Yuri Zeltser e Cary Bickley dal romanzo di Joseph Finder


Fotografia: Theo van de Sande


Montaggio: Carole Kravetz Aykanion


Musica: Graeme Revell


Costumi: Sharen Davis


Interpreti: Morgan Freeman (Charlie Grimes), Ashley Judd (Claire Kubik), Jim Caviezel (Tom Kubik/Ron Chapman), Amanda Peet (Jackie), Bruce Davison (Brig. Gen. Bill Marks)


Produzione: Arnon Milchon, Janet Yang, Jesse Beaton


Distribuzione: Medusa


Origine: Usa, 2002

Durata: 115 minuti

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