LETTE E… RIVISTE – "Il linguaggio veritiero del cinema si richiama all'anima e ha effetti secondari che non possiamo calcolare": Artur Aristakisjan, lo zar della realtà

"E' paradossale, il cinema si dovrebbe fare per i ciechi, che lo capterebbero senza vederlo, per l'energia che ha". Il regista moldavo parla di sé e delle sue creature diseredate a El Amante, rivista online e scuola spagnola di critica cinematografica

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Artur Aristakisjan, narratore in bianco e nero di un dolore senza limiti che rifiuta la storiografia e sceglie piuttosto la forma di una parabola laica e crudele quanto mistica e rituale, si muove e parla come dovrebbe esprimersi un poeta: da vicino, incontrato per le strade di una piccola cittadina italiana, esprime contemporaneamente un sorriso sconcertante per la sua semplicità e una rara capacità di ferire con la parola (cristallina e incisiva quanto le sue immagini indimenticabili). Il suo linguaggio rifiuta ogni tentativo di apparire ermetico e misterioso, da astratto immediatamente muta in lancinante bellezza che a spiragli, come attraverso un tessuto ruvido e sporco, lascia intravedere i corpi, le mutilazioni, il dolcissimo delirio e i silenzi dei suoi personaggi. Parola di estrema lontananza (Aristakisjan è nato a Kishiniev, Moldavia, nel 1961) di assoluta complessità filosofica ma di evidenza e limpidezza che ammutoliscono.
Sarebbe un gigantesco fraintendimento vedere nelle creature mendicanti che si aggirano nella superficie insieme cupa e luminosa dei suoi film semplicemente dei freaks, rappresentati in un'estetica dell'irregolarità o, peggio, del pietismo. Piuttosto la loro deformità è il canto delle loro vite, la loro miseria sembra appartenere alla terra quanto gli alberi e le pozze d'acqua, la loro follia lirica è individuale ma terribilmente universale all'interno di quel 'sistema' implacabile di cui il padre-fantasma di Palms racconta a un figlio che potrebbe essere ucciso ancora prima di nascere, mettendolo in guardia necessariamente prima della sua nascita, momento in cui farà parte inesorabilmente e a tutti gli effetti di un meccanismo perverso che si autogenera e si perpetra nutrendosi di tutti i corpi che solcano la terra. Questo sistema sembra una bomba a orologeria e mostra come una verità lancinante il ciclo della stessa catastrofe nei secoli, che siamo impossibilitati a riferire solo ed esclusivamente alla Russia del postcomunismo e diviene metafora durissima dell'umanità intera. Viene raccontato con la medesima imperturbabilità con cui Aristakisjan, interrogato in merito a una sua ipotetica volontà di inviare un messaggio sulla possibilità del dialogo, del contatto tra i corpi, della comunicazione tra gli esseri umani, risponde soavemente che non è possibile penetrazione, vero contatto tra i corpi, al limite uno sfiorarsi come spettri, e, nel migliore dei casi, incantesimo, un riconoscersi come si possono riconoscere due ciechi nella folla (non a caso è così che egli racconta il proprio rapporto con un altro regista-poeta, Sarunas Bartas). A. si rifiuta di parlare di un cinema che non sia innanzitutto impressione, reazione e smarrimento al contatto con la consistenza della pellicola, scelta consapevole nella visione, possibilità di instillire un veleno sottilissimo: "io distinguo fisicamente la pellicola di Vigo, di Antonioni, di Spielberg o di Almodovar… l'artista è in un certo modo 'lo zar della realtà': in un certo senso egli cancella la massa, oppure vuole educarla, ma può anche volerla eliminare, a seconda di quello che trasmette, creando un esercito di ammalati che soffrono per ciò che infonde.."

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THE OTHER SIDE OF GENIUS. IL CINEMA DI ORSON WELLES – LA MONOGRAFIA

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Il mondo di Artur (intervista apparsa su El Amante il 07/07/2001)

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Ha un nome che assomiglia a quello di Aristarain. Però il suo cinema non sembra per niente quello del cineasta argentino. In realtà non ha niente a che vedere con nessun'altra cosa e già solo per questo merita la nostra attenzione. Dopo aver visto Un posto sulla terra in versione russa, supponevamo che A. A. fosse un personaggio alquanto eccentrico. Il suo discorso ci risulta un po'lunatico ma di quelli che vale la pena ascoltare.


Raccontaci la tua biografia.
Non ho una biografia. Quando avevo vent'anni ero un bambino, ero inutile. Sono nato nel sud della Moldavia (ex Unione Sovietica) in una piccola comunità ebrea, anche se mio padre era armeno, un luogo carico di intelligenza da un lato e di orrore dall'altro. Per una persona creativa è una fonte di ispirazione. Da bambino avevo una specie di sogno ricorrente: ero un artista e mi portavano a spasso in gabbia per il paese.
Più tardi seppi che anche Ezra Pound veniva portato a spasso in gabbia, però non accadeva in uno Stato totalitario, ma democratico. Così il mio sogno è avere la stessa sorte di Pound. La mia biografia, in fondo, sono le mie fantasie.


Come arrivasti a fare cinema?
Durante un periodo di 7 anni mi recai a Mosca per vedere se mi ammettevano alla scuola di cinema. Mi rifiutavano sempre. Gli esami li tenevano registi famosi che, quando mi guardavano in faccia, dicevano "No, no, questo no". Nel 1988, anno in cui si compì un millennio di cristianità in Russia, fu aperto una specie di corso per venti tipi strani come me, gente che aveva sedici anni e già era stata in carcere e cose simili, curato da un documentarista che vedeva qualcosa in questi personaggi che aveva in classe. Il professore era ancora più strano. Filmava le cose che nessuno voleva filmare, come per esempio alcuni pellegrini del polo nord che si mettevano addosso delle specie di ali. Nessuno degli altri riuscì a girare dei film. Io non avevo soldi, e per questo ero l'unico al quale era permesso dormire nella scuola. Per 5 anni io vissi così, vendendo quello che possedevo. I miei genitori mi aiutarono molto, fu una storia molto curiosa. Anche se erano intellettuali vivevano nella povertà più assoluta, senza acqua e senza elettricità. Un giorno mia madre si stancò e decise che dovevano emigrare. Andò all'Ambasciata Tedesca e dichiarò che tutta la sua famiglia era stata sterminata dai nazisti e che sapeva che c'era un programma per le vittime per emigrare in Germania e che li avrebbero aiutati. Le dissero che per verificare i dati ci sarebbero voluti 3 anni. Arrivò a casa senza speranze, così mio padre andò ancora all'Ambasciata Tedesca e dichiarò che mio nonno era morto in Romania combattendo per i nazisti nella cavalleria. Lo ricevettero a braccia aperte: gli dissero che era un eroe di guerra e che Hitler aveva creato nel '44 un fondo per gli stranieri che morivano difendendo il Reich e che questo fondo era ancora accessibile. Chiese quanto ci avrebbero messo a verificare i dati e gli dissero: 2 giorni. Ed effettivamente in un paio di mesi emigrarono e oggi vivono a Norimberga. Prima però vendettero quel poco che avevano e me lo dettero perché io continuassi a studiare.

Quando realizzasti il tuo primo lungometraggio?
Lo realizzai per laurearmi nel 1994. E'un documentario chiamato Palms (Ladoni) che fu presentato al festival di Berlino. Il film ebbe successo, così cercai di essere accolto nel sindacato dei registi e mi rifiutarono. Feci ricorso e mi ammisero. Il film vinse il premio come miglior film russo dell'anno.


Sembri un tipo così amabile, come hai potuto realizzare un film tanto tragico?
Il modo in cui una persona si comporta in compagnia degli altri è un'illusione. Nessuno sa come è realmente quando è solo. La gente si illude che io sia amabile e amichevole, sempre ci inganniamo e inganniamo anche gli altri pretendendo di essere diversi da quello che siamo. E nel cinema c'è qualcosa che esiste indipendente dalla volontà del regista. E' un corpo trasparente che ha una vita propria. Il mio film è uno scontro tra i corpi dei diseredati e il regista. Il risultato mi sorprende e non è in mio potere controllarlo.
Palms fu un esperimento sulla maniera in cui i film nascono, a volte contro la volontà del regista. Quando ero bambino scappai di casa e incontrai dei vecchi ebrei che nessuno voleva perché erano vecchi e pazzi. La patologia ebrea mi affascina. Uno di loro era un fotografo che viveva in una sorta di latrina, una stanza molto buia. Era stato corrispondente al fronte durante la seconda guerra mondiale. Comprava la pellicola e l'apriva in modo che si vedesse l'immagine. Io non capivo cosa facesse. Infine me lo spiegò e disse: "Invito diverse persone a vedere questi pezzi di pellicola e chiedo loro di guardarvi contro, gli chiedo di dirmi quanto è esposta. Le persone che hanno una grande sensibilità impressionano la pellicola e in qualche modo si fondono con essa". La mia esperienza cinematografica cominciò lì. Truffaut e Visconti, gente come loro, avevano una grande sensibilità che impressionava le loro pellicole, più che chimica era alchimia. Il linguaggio veritiero del cinema si richiama all'anima e lascia un'impronta nell'anima, ha effetti secondari che non possiamo calcolare. E' paradossale, però il cinema si dovrebbe fare per i ciechi, che lo capterebbero senza vederlo, per l'energia che ha.

Il tuo film ha qualcosa a che vedere con il cristianesimo, incluso quello primitivo.
Non mi piace speculare su questo argomento. Non sono un vero credente. Però credo che a Dio non interessi quello che c'è nella nostra mente. Non si può dire che siamo credenti; dirlo è un autoinganno che aiuta la gente comune a vivere. Mi interessa la fede. Mi interesserebbe sapere che cos'è. I libri e la chiesa non riflettono il senso della rivelazione. La cultura e la fede sono contraddittorie. Nel mio film non c'è un'ideologia, né un'intenzione in questo senso. Vorrei mostrare gli istinti degli esseri umani, come si manifestano in una piccola società. La fratellanza, l'amore non sono conoscenze ma istinti che vivono nell'essere umano. Quando nacque, il cristianesimo era un istinto, però dopo fu ricoperto da diversi strati di cultura. Non aveva niente a che vedere con quello che c'è ora. La chiesa è un affare della cultura cristiana, non della fede cristiana. Di credenti genuini che ce ne sono molto pochi e per esserlo dovrebbero stare isolati dal mondo moderno, probabilmente in un manicomio.


Ciò che il film racconta [Un posto sulla terra, n.d.t.] sarebbe potuto succedere in un altro posto o soltanto a Mosca?
In qualsiasi posto. E' una favola o un racconto di fate. All'inizio credevo di chiamarlo Maria, ma avrebbe alluso troppo al cristianesimo. Il titolo che ha adesso indica precisamente questo, che può essere interpretato in funzione di qualsiasi luogo.


Chi sono gli attori?
Salvo un'attrice e il leader della comunità che è un ballerino, la maggior parte sono emarginati veri. Feci correre la voce che c'era un rifugio per i senzatetto e loro accorsero. Lì girammo il film ricreando ciò che succedeva nella realtà, come le razzie della polizia. Inclusi [nella produzione, n.d.t.] l'attrice perchè la incontrai casualmente e mi disse che era sposata. Le chiesi se si era sposata per amore o per soldi e mi rispose che si era sposata per soldi. Tanta onestà fece sì che io la convocassi.


Chi interpreta Maria?
E' una ragazza russa molto infelice. E' una vittima della letteratura russa.


Come?
Molte donne russe leggono troppi libri, che le influenzano piu'che la vita stessa .


Qui interviene Raisa, distributrice del film e traduttrice dell'intervista.
Per questo ci sono tante donne russe infelici, perché nella vita non trovano mai qualcosa di simile. E a me e alle mie compagne d'infanzia succedeva questo. La letteratura russa è più grande della vita.


Cosa fa Maria adesso?
Legge i libri di letteratura russa ai poveri e ai disabili. E' un'anima pura.


 


Testo originale: http://www.elamante.com/nota/1/1040.shtml
Traduzione: Francesco Tavolaro
Introduzione e ricerca iconografica: Margherita Palazzo


Filmografia di Artur Aristakisjan:


PALMS (1993)
(Ladoni, Russia, b/n,140')
Regia di Artur Aristakisjan


UN POSTO SULLA TERRA (2000)
(Mesto na zemle, Russia, b/n, 121')
Regia di Artur Aristakisjan


 


 


 


 



 

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