"Ocean's Eleven" di Stephen Soderbergh

Da George Clooney a Julia Roberts non c'è scampo alla parade divistica: quasi come se l'unica storia possibile fosse più nei corpi, nei visi, nelle movenze che non nella tessitura della trama, dove tutto appare funzionale al mostrare un “mondo perfetto”

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I racconti lo sapete bene come procedono: rispettano, spesso, le nostre fantasie, accettano di soddisfare le aspettative, ripetono indefinitamente lo stesso percorso, la stessa configurazione di eventi.
Godiamo dell'eterna ripetizione, del gioco soddisfacente di volere situazioni nuove all'interno di strutturazioni simili, uguali.
"Ocean's eleven" non si sottrae a questa "maledizione". Ma evoca spettri estremamente caratterizzanti, paradigmi di un genere tra i più fedeli al percorso noto.
C'è un problema da risolvere: rapinare una banca (o, in questo caso, un casinò o, altrove, una chiesa col tesoro di San Gennaro) e questo luogo risulta evidentemente impenetrabile.
Una parte del racconto serve a spiegarci che è proprio impossibile riuscire a prelevare il tesoro da quel luogo lì.
Un'altra parte del film è destinata al racconto di come è possibile mettere su una squadra abile a neutralizzare gli impedimenti che il tesoro pone tra se stesso e il mondo esterno.
Ovviamente, la storia – date queste "semplici" premesse – procederà abbastanza tranquillamente verso il prevedibile (in questo caso: prevedibilissimo) finale.
I simpatici manigoldi riusciranno a superare ostacoli e traversie e giungeranno al magnifico obiettivo. Ad un perfetto meccanismo di difesa si contrapporrà un altrettanto perfetto meccanismo d'aggressione, di smantellamento, di penetrazione.
Sincronismi, qualche lieve imperfezione, qualche problema, la necessità di alcuni meccanismi correttivi: il godimento è nel seguire il protocollo, l'evoluzione sistemata di quanto pianificato, con pochissimi intoppi. Ogni cosa al suo posto, equilibri, happy end: narrativamente è una semplificazione della fiaba – che, incredibile a dirsi, quale genere, mostra più intemperanze, più fratture, più squilibri.
Il vettore si sostanzia negli attori, da George Clooney a Julia Roberts non c'è scampo alla parade divistica: quasi come se l'unica storia possibile fosse più nei corpi, nei visi, nelle movenze che non nella tessitura della trama, dove tutto appare funzionale al mostrare un mondo perfetto – solo qualche piccolo strappo, forse nelle parole d'amore del marito-ladro alla moglie che l'ha abbandonato per finire nelle braccia del proprietario biscazziere, il semplice antagonista della storia – un perdente viscerale: appena compare sulla scena è già segnato dalla disgrazia non ancora maturata.
Perfetta anche metaforicamente, Las Vegas appare l'unico territorio possibile all'interno del quale questa storia può vivere: un corpo luminoso, esagerato nelle architetture, prevedibile nelle proposte, affogato in un afoso e vuoto deserto, il regno dell'effimero, lo spazio sublime del pensiero debole e perdente, del nulla.

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