The Believer, di Henry Bean

“The Believer” non sa nemmeno cosa sia la meraviglia del racconto, lo spaesamento del trovarsi immersi in concatenazioni finzionali di corpi e di vite e soprattutto quell’effetto di disorientamento che si deve creare nello spettatore

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Insinuandosi nelle pieghe ombrose di un cinema di testa più che di cuore, l’esordio alla regia di Bean, premiato peraltro all’ultima edizione del Sundance Festival con il Gran Premio della Giuria, è una di quelle opere che valgono bene il dibattito, nate per essere discusse, ma non necessariamente viste. Spieghiamo subito il perché. Gran parte del cinema medio di questi ultimi anni si divide in due grossi tronconi: quello rappresentato da quelle opere capaci di creare squarci di senso inaspettati, inattesi, improvvisi, e quello che invece si compone di tutti quegli sguardi che piuttosto di mostrare la realtà, vogliono necessariamente spiegarla, assumendo dei toni poco concilianti rispetto alla pluralità ermeneutica che invochiamo qui, ora, come costante necessaria ed obbligata per ogni esercizio critico che si rispetti. Detto questo, consci del fatto che tutto ciò Rossellini e pochi altri lo avevano già capito più di cinquant’anni fa, facciamo rientrare volentieri quest’opera prima all’interno di questo secondo tipo di opere e non tanto per livore intellettuale nei confronti di un film in cui le premesse iniziali vengono rispettate da principio sino alla fine senza nemmeno una-possibilità-una di sbandamento in corsa, quanto per una sorta di sacrosanta ritrosia nel credere ancora ad un cinema incapace di produrre in sé una sia pur minima traccia di stupore per ciò che racconta. Fatto sta che questo “The Believer” non sa nemmeno cosa sia la meraviglia del racconto, lo spaesamento del trovarsi immersi in concatenazioni finzionali di corpi e di vite e soprattutto (almeno in questo caso) quell’effetto di disorientamento che si deve creare nello spettatore, alimentando la propria visione della realtà con una buona dose di “aperture” che non dovrebbero mai mancare. Apertura di nuovi squarci prospettici, apertura di nuovi occhi con cui riallacciarsi alla dinamica pulsionale della visione, e soprattutto apertura del set stesso a deviazioni capaci di contenere al proprio interno più direzioni insieme. Ecco dunque, tornando al discorso di cui prima, quella sensazione di staticità innaturale che si prova nel percorrere gli angusti sentieri dell’opera. Sentieri già abitati, già vissuti, già esplorati, senza che nulla ci si imponga all’occhio quale reale divaricazione possibile rispetto all’assunto programmatico dell’azione. Avremmo voluto trovarci di fronte, così all’improvviso, ad interessanti crocicchi in cui incrociare il nostro sguardo col proprio contrario, oppure renderci conto che quella che si stava affrontando era in realtà una falsa pista, un falso iter da ri-percorrere nuovamente per estrarne delle rinnovate premesse, ma il presupposto stesso dell’opera (quello basato su di un giovane ebreo che si unisce ad un gruppo di estrema destra nel tentativo di continuare i deliranti propositi nazisti degli anni quaranta) ce lo ha impedito, affermandosi sia da subito quale provocazione più scritta a livello di sceneggiatura che realmente filmata, che realmente vissuta. Ma aggiungiamo di più. Ci pare infatti, e ne è testimone il successo che il film sta avendo nel mondo, che il film di Bean sia una di quelle opere che alla fine mettono d’accordo tutti. Ecco dunque il punto che abbiamo accennato all’inizio della nostra analisi. Il cinema deve essere discussione. Deve poter essere partecipato a più livelli (di comprensione e di visione naturalmente)ed è per questo dunque che continuiamo a diffidare di sguardi (e quello di Bean, a quanto pare, è uno di questi) che si impongono sullo spettatore soltanto al livello più epidemico, quello per l’appunto contenutistico, quello che affonda le radici in un‘abitudine alla visione che parte dal testo scritto per restare fisso su quest’ultimo, producendo un annichilimento del senso francamente inaccettabile. La visione a questo punto viene completamente annullata. Andatelo a spiegare ai difensori ad oltranza della Sceneggiatura.Titolo originale: The believer (2001)
Regia: Henry Bean
Sceneggiatura: Henry Bean
Fotografia: Jim Denault
Montaggio. Mayin Lo, Lee Percy
Musica. Joel Diamond
Scenografia: Susan Block
Costumi: Alex Alvarez, Jennifer Newman
Interpreti: Ryan Gosling(Danny Balint), Summer Phoenix (Carla Moebius), Glenn Fitzgerald (Drake), Theresa Russell (Lina Moebius), Billy Zane (Curtis Zampf), Garrett Dillahunt (Billings), Kris Eivers (Carleton), Joel Garland (O.L.)
Produzione: Susan Hoffman, Christopher Roberts
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 98’
Origine: Stati Uniti, 2001

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