“Da zero a dieci” di Luciano Ligabue

In un mix di voce fuori-campo, filmini amatoriali, forme provvisorie di musicarello, movimenti notturni di Rimini in digitale, “Da zero a dieci” esaspera un linguaggio mai disteso che non ha al tempo stesso il coraggio di essere totalmente un videoclip

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Si proietta alla ricerca di una memoria lontana, “Da zero a dieci” e precisamente nell’estate del 1980 quando quattro amici (Giovanni, Libero, Biccio, e Baygon), trascorsero un week-end con quattro ragazze nel mese di agosto. C’è in loro un insopprimibile desiderio di riciclare il passato, di vivere quelle esperienze che allora non hanno definitivamente consumato, di proiettarsi in un universo di sogni provvisori (il concerto di blues, la sfilata gay, il rendez-vous con prostitute, la corsa sul lungomare completamente nudo), in una dimensione totalmente libera. Sia “Radiofreccia” (ambientata a Correggio negli anni Settanta), sia “Da zero a dieci” sono accomunate dal fatto di essere così schiave del passato da precludere qualsiasi forma di vitalità al futuro dei personaggi. Ovviamente dentro il secondo film del cantautore Ligabue c’è un legame con l’opera precedente, nella commistione tra autobiografismo e ritratto generazionale (secondo l’equazione Procacci=Ligabue=Muccino), nella malinconia che porta a ripetere abitudini e gesti del passato (i quattro amici che si trovano nella stessa pensione di Rimini), nelle ferite mai riemarginate (la strage alla stazione di Bologna dove ha perso la vita un loro amico). In un mix di voce fuori-campo, filmini amatoriali del passato, forme provvisorie di musicarello, movimenti notturni di Rimini in digitale, “Da zero a dieci” esaspera un linguaggio mai disteso che non ha al tempo stesso il coraggio di essere totalmente un videoclip. C’è una struttura di racconto che Ligabue ha già adottato in “Radiofreccia” e ha ripreso alla lettera anche in “Da zero a dieci”; la voce-off e l’anticipazione della tragedia (la morte di un amico avvenuta in un’illegale roulette automobilistica) introducono verso un mondo dove l’eccessiva pretesa di realismo lo fa sembrare addirittura falso. Forse c’è troppa memoria dentro queste opere di Ligabue, c’è troppa partecipazione. Ma i sogni, ricordi, emozioni e affetti purtroppo non vivono in un film anche presuntuoso, che guarda con un occhio alla nostalgia di “American Graffiti” e con l’altro a una goliardia a metà tra “I vitelloni” di Fellini e “I laureati” di Pieraccioni. In realtà “Da zero a dieci” ha in sé un tono così alto e serio da omologarsi in parte a quel misto tra fiction e documentario di produzioni televisive (le immagini della strage di Bologna), ma porta in scena corpi già vissuti, già senza ossigeno dall’inizio, intrappolati in dissertazioni filosofico/esistenzialisti di uno sconforto emotivo e di uno squallore visivo impressionanti (il gruppo di amici e donne che si trovano a parlare dentro “l’Italia in miniatura”). Non commuove e non seduce Ligabue, piuttosto deprime. E lo sguardo in macchina finale di Giovanni è, con quello di Verdone di “C’era un cinese in coma”, tra i più isolati e inutili, senza “feed-back”, definitivamente impermeabile dietro lo schermo.Regia: Luciano Ligabue
Sceneggiatura: Luciano Ligabue
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Angelo Nicolini
Musica: Luciano Ligabue
Scenografia: Leonardo Scarpa
Costumi: Marina Roberti
Interpreti: Stefano Pesce (Giove), Massimo Bellizoni (Libero), Pierfrancesco Favino (Biccio), Elisabetta Cavallotti (Caterina), Fabrizia Sacchi (Lara), Stefania Rivi (Betta), Barbara Lerici (Carmen), Stefano Venturi (Baygon),
Produzione: Fandango
Distribuzione: Medusa
Durata: 99’
Origine: Italia, 2002

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