Apri gli occhi, il cielo è vaniglia – da Amenàbar a Cameron Crowe
“Vanilla sky” non ambisce ad essere un pedissequo e filologico rifacimento ma piuttosto cerca di istaurare una messinscena che si esplichi attraverso un rivissuto onirico-cinematografico dentro il quale si muovono segni di diversa natura e contaminazione
Apri gli occhi!, apri gli occhi!, apri gli occhi! Se con questo monito, la ripetizione del titolo della pellicola di Amenabar, sì apre, oltre all’occhio, anche l’omonimo film del ’97, lo stesso avviene in “Vanilla Sky” creando immediatamente uno scompenso. Se nella pellicola spagnola la ripetizione della frase si colloca in un contesto autoreferenziale, nel film di Cameron Crowe la medesima proposizione si fa carico di collegare entrambi i vissuti filmici. Apri gli occhi non è solamente una frase registrata in una radiosveglia, è anche l’avvertimento del regista che ci induce a fare attenzione ai particolari e alle differenze comuni ai due film. “Vanilla sky” non ambisce ad essere un pedissequo e filologico rifacimento ma piuttosto cerca di istaurare una messinscena che si esplichi semmai, attraverso il rivissuto. Un rivissuto onirico-cinematografico dentro il quale si muovono segni di diversa natura e contaminazione. Dal cinema (“Jules e Jim”, “Fino all’ultimo respiro”, quasi subliminalmente Spielberg, la stessa Penelope Cruz e naturalmente lo stesso “Apri gli occhi”), alla musica (Radiohead, Jeff Bukley, Chemical Brothers, Paul Mc Cartney, Bob Dylan), alla tecnologia (televisori a scomparsa, telecamere nuova generazione, il virtuale John Coltrane, la criogenesi). Se il canonico remake è una pratica fedelmente postmoderna, il rivissuto di Crowe lo è ancora di più. La corsa videoclippata di Tom Cruise in una New York deserta è già di per sé la summa e il prologo di una corsa sfrenata nella piazza dei tempi post-postmoderni, Times Square per l’appunto. Da un regista pop come Crowe non ci si aspettava un ispessimento delle psicologie, anzi, è evidente l’intento di aggirare certi probabili ostacoli narrativi, come quello incarnato dallo psicologo che, nel film di Amenabar, avvicendava il suo personaggio con un sotteso richiamo al padre del protagonista. E’ interessante oltremodo notare come “Vanilla sky” da una parte sottragga un possibile risvolto edipico per poi aggiungere tutta la parte che ruota attorno al tavolo del consiglio d’amministrazione. Crowe gioca furbescamente ad attingere materia destabilizzante sui volti ambigui degli azionisti richiamando lontanamente il “The game” di Fincher e la setta scientologista di cui, per altro, Cruise fa parte. E se pensiamo che uno dei traguardi ricercati da scientology è la produzione di immortalità, si fanno largo strane e sicuramente futili (?) congetture. Crowe personalizza ulteriormente la sua pellicola relegando alla musica un ruolo da deuteragonista. E’ in questa sede che la pop-song tanto amata sfuma, miscela, accelera, impenna e si stoppa all’interno della medesima inquadratura e prende per l’udito lo spettatore come nemmeno con “Quasi famosi” riesce a fare. Il regista usa quella musica come espressione del disordine emotivo del protagonista e sottolinea che quello stesso disordine è la cassa acustica dei nostri tempi. Sull’altro versante, quello spagnolo, la ragnatela onirica era certamente più avvolgente, e conseguentemente il riferimento temporale si perdeva nel registro di una dimensione avulsa, dove la partizione musicale non cercava riferimenti sociali come la popular di Crowe ma, probabilmente, dato che la colonna sonora è dello stesso Amenabar, lambiva i territori inconsci del regista stesso. “Apri gli occhi”, alla sua uscita, passò quasi inosservato. Con facilità la critica gli assegnò l’antipatico giudizio di opera virtuosistica e superficiale. Ora, a cinque anni di distanza, un autore integrato e affermato come Cameron Crowe, premio Oscar per la sceneggiatura di “Quasi famosi”, è costretto a tenere le distanze poiché il giochino da virtuosi dell’allora venticinquenne Amenabar scotta le dita come poche opere seconde sanno fare.