“Carlo Giuliani, ragazzo”, di Francesca Comencini

Presentato prima a Cannes, nella versione di 59 minuti, e poi a Bellaria nella nuova e definitiva versione di 77 minuti (quella in distribuzione nelle sale di prima visione), il film esprime bene, fin dal titolo, lo sguardo adottato da Francesca Comencini. Semplice e immediato. Dunque profondo e complesso. Con vari livelli che si intrecciano

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La forza e il segno delle parole e delle immagini. Francesca Comencini lavora la materia calda di un evento sconvolgente e ce la ritrasmette, quella materia, in forma di memoria, con lo scarto del (brevelungo) tempo, uno scarto che determina la giusta distanza e il fluire ancora e sempre bruciante dei fatti e dei gesti – delle ‘immagini’ – che quel 20 luglio 2001 hanno davvero ‘scorticato’ la pelle del cinema. Fa rientrare, la filmaker di origine romana, nel territorio e nel corpo del cinema quel magma visivo e fisico che ha costituito, a partire da quella giornata, una vasta documentazione utilizzata in molteplici direzioni.

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“Carlo Giuliani, ragazzo”, presentato prima a Cannes, nella versione di 59 minuti, e poi ad Anteprima per il cinema indipendente italiano a Bellaria, nella nuova e definitiva versione di 77 minuti (ovvero quella in distribuzione nelle sale di prima visione), esprime bene, fin dal titolo, lo sguardo adottato da Francesca Comencini (e Luca Bigazzi, come sempre capace di cogliere sfumature da ogni spazio di un’inquadratura). Semplice e immediato. Dunque profondo e complesso. Ci sono vari livelli che si intrecciano in questo lavoro che ha una delle sue forze nella discrezione dell’esposizione dei fatti, nella disposizione all’ascolto, nella dolce tenacia di costruire un percorso che mette in continua, lucida, implacabile, tenera sovrimpressione il soggettivo e l’oggettivo (a conferma di ciò, la madre nello studio di casa non è mai filmata frontalmente, ma leggermente di profilo).

Livelli altamente teorici, oltreché emozionali, che alzano il pathos come se fosse in corso di svolgimento una detection (dal finale purtroppo noto). Le parole della madre (quasi una continuazione intima, anche nelle penombre, del suo bellissimo precedente film, il lungometraggio “Le parole di mio padre”). Le parole, scritte e lette, di Carlo, che chiedono spazio dalle pagine bianche affioranti dagli strati bui delle inquadrature. I flash monumentali e statuari di alcune delle persone che hanno conosciuto Carlo, lampi di/in bianconero che sospendono ancor più il testo nella dimensione tragica e irreale dello stupore muto. E le flagranze dei luoghi di cui parla la madre, altri brevi inserti ‘rallentati’ nel tempo della parola, dell’ascolto, della visione in/diretta. E, naturalmente, i materiali degli scontri (tratti dal lavoro collettivo “Un mondo diverso è possibile”), che affiancano il racconto di Haidi Gaggio Giuliani.

La sfida di un film come “Carlo Giuliani, ragazzo”, e della sua autrice, sta proprio nell’aver dato voce (nel senso più esteso del termine), consistenza e coesistenza a questi livelli, creando una tensione inscalfibile, un respiro sotterraneo e sospeso che si fa portatore di un unico gesto dai molti strati. Non a caso l’ultima immagine (fra i titoli di coda, e prima della ‘coda’ delle dichiarazioni di persone che conobbero bene e amarono Carlo Giuliani, ‘inserto’ che non aggiunge nulla alla compattezza del testo precedente, che resta il vero e proprio film) è quella che ci mostra una fotografia di Carlo tuffarsi in acqua. Gesto sospeso. Quasi nascosto. Attimo senza tempo che esprime il senso di un’opera che fa della sottrazione e della sospensione (un silenzio, un lampo di montaggio, la percezione più che visione di frammenti opachi di un’inquadratura) il ‘luogo’ privilegiato del sentire e del vedere, un ‘luogo trasversale’ alla convenzionalità di tanto filmare oggi.

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