La maledizione dello Scorpione di Giada, di Woody Allen

Quasi unicamente affidato alla brillantezza dei dialoghi, l’ultimo Allen è ormai il segno di un ulteriore dissoluzione, di sparizione di un cinema sempre più agonizzante che Allen tiene in vita soltanto riproducendo se stesso.

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Si sbiadisce sempre di più il cinema di Woody Allen. “The Curse of the Jade Scorpion” (“La maledizione dello scorpione di giada”) è ancora un’ulteriore elaborazione di una perdita di consistenza del visibile, con i colori neutri della fotografia di Zhao Fei, per un omaggio del cineasta statunitense a quella commistione tra giallo e commedia tipica della Hollywood degli anni ’30 e ’40. Dopo l’Espressionismo (“Ombre e nebbia”), il noir (“Misterioso omicidio a Manhattan”), il gangster-movie (“Pallottole su Broadway”), il musical (“Tutti dicono I love you”), e il divertito ritratto biografico (“Accordi e disaccordi”), Allen penetra con i “suoi” personaggi e le “sue” ossessioni (la psicanalisi, la paura della morte) dentro la struttura dei generi. Operazione questa ripetuta più volte, ma con uno stile sempre più meccanico, essenzialmente affidato alla brillantezza di dialoghi di cui si appropria soltanto Allen attore lasciando gli altri interpreti (Helen Hunt ma soprattutto Dan Aykroyd e Charlize Theron) abbandonati a mortificanti ruoli di contorno. Allen attore dunque mattatore sul set, nei panni di un investigatore assicurativo della New York degli anni ’40 indotto a commettere furti sotto ipnosi, al quale Allen regista si adegua stancamente. Che il suo cinema fosse in uno stato involutivo – soprattutto a livello di sguardo – era emerso già dopo “La dea dell’amore”. Nel caso però di “The Curse of the Jade Scorpion” c’è anche una sceneggiatura debole incapace di sorreggere almeno parzialmente il film, essenzialmente affidata a un’idea (l’ipnotizzatore che chiama il protagonista al telefono e lo costringe, suo malgrado, a penetrare dentro lussuose abitazioni per derubare gioielli) e a due parole capaci di operare la metamorfosi: Costantinopoli e Madagascar. In uno studios dichiaratamente finto, Allen ormai usa il set come puro teatro di posa, all’interno del quale sono appena accennati quel lavoro sui corpi sospesi tra visibile e invisibile e la furiosa guerra tra sessi dove si avverte sempre di più la nostalgia di Diane Keaton e, in misura molto minore, di Mia Farrow. “The Curse of the Jade Scorpion” – che per certi versi potrebbe essere anche come la dilatazione dell’episodio di “New York Stories” – è il segno di un’ulteriore dissoluzione, di sparizione di un cinema sempre più agonizzante che Allen tiene in vita soltanto riproducendo se stesso.

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