BERLINALE 57 – I’m a Cyborg But That’s Ok, di Park Chan-wook

Park Chan-wook delude le attese con il suo I’m a Cyborg but That’s Ok. Forse il problema consiste nel non aver sfruttato appieno l’enorme serbatoio emozionale rappresentato dalla storia

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L’escursione di Park Chan-wook nell´universo della science fiction non resterà di certo scolpito negli annali: I am a Cyborg But that’s Ok non ha assolutamente conquistato la platea della 57a Berlinale, che lo vede in corsa per l’Orso d’Oro. Park Chan-wook è davvero uno dei più importanti registi asiatici degli ultimi anni e il suo cinema, iperviolento e perverso come pochi, è approdato sempre a derive quantomeno interessanti e originali. Questa sua ultima opera non è certamente una pellicola interamente sbagliata; al contrario, gli elementi interessanti non mancano di certo. Il problema semmai è una generale inutilità che investe l’opera, come se davvero non se ne trovasse il senso.

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Chiusa con successo la “trilogia della vendetta” il regista coreano cercava forse la storia che spezzasse un po’ la sua carriera, per non farla divenire schiava di un solo genere: la scelta di dedicarsi ad una vicenda così particolare, di per sé, è meritoria, ma non è sufficiente per garantire la buona riuscita di un’opera.

Protagonista principale del film è una ragazza che crede di essere un robot: da qui la decisione di chiuderla in un manicomio. Ma si sa, il manicomio più che aiutare le persone finisce per aggravarne le condizioni, per cui la ragazza si trova circondata da esseri umani davvero strani. Il film, dunque, muove i suoi passi tra le aberrazioni tipiche dei pazzi e le loro trovate geniali: insomma, sembra muoversi  in un ambiente volutamente circoscritto, ove la libertà d’azione è limitata però in misura paradossalmente maggiore. E il problema forse è lì, nel non aver dato un ampio respiro a questa vicenda, nel non aver sfruttato appieno l’enorme serbatoio emozionale rappresentato dalla storia d’amore che nasce all’interno delle mura del manicomio. Perché, in effetti, ciò che funziona maggiormente nel film è l’universo schizofrenicamente parallelo, deviato e deviante come pochi, vero, senza alcun orpello a cui agganciarsi, in cui vivono i malati di mente: lì, e solo lì, la parabola del regista coreano incontra quella – fortunata – dei film che lo hanno consacrato al mondo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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