BERLINALE 59 – "My One and Only", di Richard Loncraine (Concorso)

my one and only

La messinscena di Loncraine è sempre di irritante liofilizzazione dello stereotipo on the road di Alici e affini, e ben spesso imbarazzante, come fosse l'ingolfamento definitivo del lavoro già terrificante di sintetizzazione dell'immaginario classico intentato in alcuni recenti film dei Coen. Forte della compiaciuta sagacia dei dialoghi 'frizzanti' e delle battute maliziose, la civetteria di Renée Zellweger pare essere diventata oramai maniera.

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my one and onlyE' probabilmente davvero imperdonabile come, per raccontare la storia dell'ennesima vita salvata dal Cinema, e più precisamente da Hollywood – ovvero quella dell'attore George Hamilton con seguito di madre e fratello scapestrati, a spasso da 15enne su di una Cadillac per l'America degli anni '50 alla ricerca del sogno, un uomo da sposare per mamma Renée Zellweger e la segreta voglia di provarci con la scrittura –, Richard Loncraine (carriera non proprio splendente: Riccardo III, Wimbledon, Firewall) non si fidi assolutamente del Cinema. D'altra parte, quando invece decide di affidarsi alle immagini, la messinscena è sempre di irritante liofilizzazione dello stereotipo on the road di Alici e affini (e sì che il film è ispirato alle reali memorie di George Hamilton…), e ben spesso imbarazzante (valga per tutti il frammento con il pazzoide manesco spasimante Colonnello, ben oltre il livello di uno sconfortante senso del grottesco, con scena madre con ridicolizzante capitombolo conclusivo davvero da mani nei capelli), come fosse l'ingolfamento definitivo del lavoro già terrificante di sintetizzazione dell'immaginario classico intentato in alcuni recenti film dei Coen. Eppure, forte della compiaciuta sagacia dei dialoghi 'frizzanti' e delle battute maliziose messe in bocca al si-suppone-spassoso fratello gay e ad una Renée Zellweger la cui oramai insostenibile civetteria pare essere diventata irrevocabilmente maniera (il suo personaggio è un po' la versione meno sfrontata e dunque paradossalmente molto meno moderna della Allison French di Appaloosa), Richard Loncraine decide di non fidarsi del Cinema. Il film è infatti narrato fuoricampo dalla voce di George, che ci introduce nella sequenza iniziale in cui il ragazzo è stato mandato dalla madre a comprare un'automobile. Davanti alla richiesta di spiegazioni dei basiti concessionari, George racconta l'antefatto in flashback in cui sua madre scopre il tradimento del marito, un Kevin Bacon che pare capitato lì per caso, ma che nonostante tutto nel paio di sequenze che gli toccano mette a segno il punteggio più alto tra tutti i partecipanti all'opera: così facendo, George diventa un doppio narratore fuoricampo – è un espediente a cui Loncraine e il suo sceneggiatore Charlie Peters ricorreranno almeno in un'altra occasione (George che racconta davanti ai compagni a scuola “come ha passato l'estate”), e che dimostra, invece della supposta solidità e stratificazione della sceneggiatura, unicamente la decisione a monte di voler forzare il racconto attraverso le strette maglie di una struttura senza sprazzi di digressioni – inspiegabile, per un film che dovrebbe narrare di una fuga…Ma forse era tutto già chiaro sin dai titoli di testa, questa piccola sintesi della vicenda affidata ad una serie di sagome, cartoni e cartelloni delle strade d'America: pupazzi inanimati a cui il Cinema di Loncraine non infonde alcuno spessore.

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