TORINO 30 – "Tabu", di Miguel Gomes (Onde)

Un'eperienza rara. Tabu è un film che riesce miracolosamente a ri(n)tracciare, nel 2012, la figura di uno spettatore innamorato della narrazione, affabulato dall’immagine, protetto dallo schermo e dal fantasma dei suoi sogni. Un film in bianco e nero, girato in 35 mm e in 4:3, che richiama le origini, l’attrazionalità di un dispositivo appena nato e già così rivoluzionario. Ma Gomes va oltre, troppo oltre la fasulla serigrafia di certi The Artist recenti: ritrova un cuore pulsante e una necessità sorprendente nei suoi personaggi. Oggi.

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senza digestione enciclopedica.

Il cinema non ha bisogno di essere omaggiato:

continua a vivere” – Miguel Gomes

 

Un’esperienza rara. Questo è il cinema di Miguel Gomes. Diciamolo subito: Tabu è un film che riesce miracolosamente a ri(n)tracciare ancora oggi, nel 2012, la figura di uno spettatore innamorato della narrazione, affabulato dall’immagine nuda e primigenia, protetto dallo schermo e dal fantasma dei suoi sogni. Un film in bianco e nero, girato in 35 mm e in 4:3, che richiama evidentemente (sin dal titolo, quello dell’ultimo capolavoro di F.W. Murnau) le origini del cinema, l’attrazionalità di un dispositivo appena nato e già così rivoluzionario. Ma Gomes va oltre, troppo oltre la fasulla serigrafia di certi The Artist recenti, ritrova un cuore pulsante e una necessità sorprendente nei suoi personaggi. Oggi.

 

Il film è diviso in due parti: prima “Paradiso Perduto” e poi “Paradiso”. L’esatto opposto della scansione del film del 1931, come dire che riscoprire quell’inconsapevole eden del cinema, perso nella fatale e anestetica assuefazione odierna alle immagini, è ancora possibile. La prima parte è il lento avvicinarsi alla morte di un’anziana e bizzarra signora portoghese, Aurora (i riferimenti a Murnau si intrecciano e rilanciano se stessi con aerea e ironica leggerezza), nei suoi lucidi deliri dove il tempo e lo spazio smettono di essere categorie certe di percezione: il (suo) passato e il (nostro) presente si mescolano in una dimensione straniante. Una dimensione, appunto, che non può essere che cinema. La badante africana Santa e la vicina affezionata Pilar assistono, come davanti a un film, ai suoi ultimi bagliori cercando di mettere insieme la storia, un passato che vuole ritrovar luce e che rende così bizzarro e cupo il presente. E il passato è l’Africa, il fantasma del colonialismo e un fascinoso avventuriero di nome Gian Luca Ventura.

Il mito. Il racconto del vecchio Ventura a Pilar e Santa inizia esattamente dopo il funerale di Aurora: il cinema letteralmente esplode ribellandosi alla morte, negandola politicamente nell’immagine, trasmigrando il nostro sguardo in un regno incantato e finzionale ma terribilmente autentico a livello sentimentale. Aurora: ricca e bellissima donna, erede di una famiglia coloniale, vive in Africa col giovane marito e la sua servitù all’ombra del monte Tabu. Ma arriva un bizzarro complesso musicale nel villaggio, arriva Gian Luca con loro, e ogni certezza ridiscute i suoi confini…e il cinema ridiscute in significanza i suoi statuti: un sonoro straniante che fa percepire solo la natura rendendo muti i personaggi; la lunga camminata dei due amanti clandestini che culmina con uno sguardo in macchina interrogandoci come complici; un rapporto sessuale filmato con un candore immenso, che ci fa assistere per la prima volta a una scena primaria filmata infinite volte.

Aurora e Gian Luca si amano per un breve periodo (il tempo di un film…), il destino macchierà di sangue le loro mani. Il passato e l’amore rimangono confinati nell’immagine antica di una memoria condivisa, incarnata da un coccodrillo che assiste immobile all’ironica ciclicità del tempo. Miguel Gomes dimostra una libertà espressiva rigenerante. Perché il cinema non ha bisogno di essere sterilmente omaggiato, continua a vivere!

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