BERLINALE 64 – Journey to the West, di Tsai Ming-liang (Panorama Special)

journey to the west

Tsai, oltre a inquadrare quella biforcazione assurda tra il tempo del cinema e il tempo del mondo, sembra davvero voler salvare un’utopica concretezza, renderla eterna, nonostante sia destinata a disperdersi nei pixel del digitale e nelle linee del tempo

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journey to the westNon è più questione di stupirsi del rigore formale di Tsai Ming-liang, della consapevolezza estrema del punto di vista nella costruzione del quadro, delle quindici inquadrature, più o meno, in un'ora di film (oddio, è un film questo?). Neanche della splendida evanescenza simbolica e dell'abbagliante presenza corporea di questo walker che attraversa lo spazio a passo lentissimo eppur nel batter d'occhi di uno stacco di montaggio, per quanto raro.

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È ben altro quello che stupisce ogni volta in Tsai, e in questo sublime "esperimento" ancor più. È osservare come il contatto tra il controllo della posizione e l'imprevisto di ciò che può entrare nel quadro produca scintille di senso in espansione. Tutta una serie di questioni teoriche che sono solo il recto dietro cui sta il verso di mille altre suggestioni vitali. Volute o meno poco importa, previste o studiate oppure scoperte al margine dell'inquadratura, alla seconda, terza, quarta revisione.

 

journey to the westDavvero mozza il fiato la precisione chirurgica con cui Tsai riesce, "senza alcun trucco", a tagliare il mare, facendolo sembrare una piscina sospesa nel nulla. Bastano una superficie trasparente di vetro e un elemento decorativo. E occorre, ovviamente, la scelta puntuale della prospettiva. Ma accanto a questi tagli precisi, sicuri, c'è l'ingestibile casualità di una città e un mondo che va avanti a dispetto, addirittura contro il cinema, fino a farsene beffe. Magari urlando all'obiettivo, piazzandosi davanti, poco più in là di quel centro esatto in cui abbiamo visto riflessa, nei vetri di un autobus, l’immagine di questo bonzo arancione. Ma è cinema questo? O è un gioco di illusioni, sparizioni e apparizioni? Tsai Ming-liang non aveva detto che Stray Dogs sarebbe stato il suo ultimo film? E allora? Siamo ancora davanti la fabbrica dei Lumière?

 

journey to the westStavolta c'è Marsiglia nel percorso del walker. Non più Hong Kong. Né lo spazio vuoto di un’installazione. E c'è davvero un effettivo, attraversamento della città, dallo sbarco sul mare fino ai nascondigli più inaspettati del centro. Il cammino non è più solo orizzontale, ammette anche la salita e la discesa. E il mondo si rimette in moto dopo essersi azzerato nella perfezione del Diamond Sutra. Nel suo journey to the west, il bonzo Lee Kang-sheng ha finalmente fatto proseliti, un Denis Lavant che ne imita la camminata, con fare più incerto. Del resto sospendere il tempo del mondo, rimetterlo in asse è un’impresa titanica… E proprio su Denis Lavant si apre il film – chiedo scusa – questa cosa. Sul suo volto che pare di pietra, come giustamente sarà suggerito poco dopo con quelle rocce del mare sullo sfondo… L’uomo e la roccia in primo piano, il corpo e le cose al centro.

Tsai, oltre a inquadrare quella biforcazione assurda tra il tempo del cinema e il tempo del mondo, sembra davvero voler salvare un’utopica concretezza, renderla eterna, nonostante sia destinata a disperdersi nei pixel del digitale e nelle linee del tempo. E sembra cercare la chiave in quell’estrema concentrazione del gesto, nella parcellizzazione del movimento, segno di una piena consapevolezza del proprio corpo. Anzi… nella fantastica discesa nel sottopasso, quando istintivamente nessuno dei passanti “copre” lo spazio tra l’obiettivo e il monaco, diventa chiaro come solo il corpo sia percepito “sacro”. Basta che si veda il corpo, il “soggetto” e l’inquadratura tutto sommato è salva. L’uomo è il centro dell’inquadratura, il punto focale dello sguardo. Epperò Tsai sa benissimo che quel monaco, quell’uomo è divenuto anch’egli immagine. Al punto da ridurlo, altrove, alla dimensione di un “santino”, un piccolissimo punto arancione. È un fantasma che proietta ombra, ma resta evanescente. Permane a lungo al centro del quadro o è spiazzato ai margini, si affaccia da un angolo, nella cornice di una finestra. È un riflesso più o meno grande che passa in un tempo più o meno lungo. Appare e scompare nei posti più impensati. E noi, istintivamente, lo inseguiamo, lo cerchiamo, ci chiediamo da quale punto farà il suo ingresso in campo. E fino a che punto vivrà. Da dove verrà adesso, il cinema?

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